La contro-Fiuggi di GiorgiaIl problema di Fratelli d’Italia non è il suo passato, ma il futuro sovranista che ha in mente

La convention si è rivelata una tappa del processo di sostituzione della destra “normale” con una nazionalista. E i nomi di Tremonti, Pera e Ricolfi non servivano a recidere le radici con la storia post-fascista, ma a legittimare il ripudio del conservatorismo liberale in nome di un conservatorismo reazionario

LaPresse 01 Maggio, 2022 Milano

Da un certo punto di vista, si comprende l’orgoglio e il dispetto dei figli del dio minore della storia post-fascista, sempre costretti a esibire patenti di legittimazione politica, rilasciate dalle prefetture ideologiche del nemico post-comunista. Si capisce la fatica e l’irritazione di essere chiamati a un redde rationem con un passato sempre più remoto e sempre più immaginario, che però a destra obbligatoriamente deve assumere la forma dell’abiura morale, mentre a sinistra ha potuto prendere quella di un più comodo superamento storico.

A tutto questo, poi, si aggiungeva e tuttora si aggiunge una sorta di odiosa pregiudiziale antropologica, che solo Marco Pannella ha sfidato nella Prima Repubblica. Quella per la quale se il comunismo era cattivo, nondimeno i comunisti erano buoni, mentre dal male fascista finivano segnati tutti quelli che avevano, in qualunque modo, fatto parte della sua storia, pure di quella postuma: tutti delinquenti politici, tutti senza coscienza e senza nobiltà d’animo o di propositi.

Che insomma la destra italiana abbia dovuto fare i conti con una “questione della colpa”, da cui la sinistra è stata per principio esentata, è una circostanza che ha lasciato strascichi non solo psicologici in un mondo tormentato dalla sindrome dell’assedio.

Non c’è dubbio, quindi, che anche la convention nazionale di Fratelli d’Italia, che si è chiusa ieri a Milano e che doveva servire per presentare il volto e l’anima della destra di governo e la piattaforma della rivoluzione conservatrice per l’Italia, abbia finito per essere interpretata secondo canoni desueti: come la “nuova Fiuggi” della storia post-fascista e come una tappa di un processo di istituzionalizzazione, che ha davvero poco senso chiedere a quello che per i sondaggi è oggi il primo partito italiano.

Vale quindi la pena leggere l’evento milanese, le sue premesse e le sue prospettive in una chiave più direttamente politica, partendo da quello che questo partito è e vuole essere per il futuro, non dalle sue credenziali storiche, dal suo dna e dal suo presunto peccato originale.

Come era prevedibile e voluto, la passerella di numerosi politici e intellettuali che non provengono dai ranghi della destra italiana, ma tutti in qualche modo dal centro o dalla sinistra lato sensu liberale – Tremonti, Pera, Ricolfi, Nordio … – è servita per accreditare la forza e capacità di allargamento di FdI e quindi il suo oggettivo superamento delle colonne d’Ercole della destra tradizionale. Ma proprio da questo si capisce quanto il vero “problema democratico” di FdI – su cui osservatori e analisti si sono mostrati disattenti, essendo più interessati a chiedere conto dei saluti romani alle esequie di donna Assunta Almirante: quando si dice la lungimiranza – sia la qualità e la natura della proposta cosiddetta conservatrice del partito di Giorgia Meloni e la sua collocazione nel palinsesto della destra politica internazionale. Insomma: non da dove viene, ma dove va.

Il termini canonici, magari troppo didascalici e scontati, ma utili per segnare la mappa ideologica dei partiti, la destra conservatrice in Occidente, fino all’ascesa alla Casa Bianca del primo presidente anti-americano della storia americana, Donald Trump, e alla proliferazione dei suoi auto-proclamati e riconosciuti terminali sud-americani e europei (da Bolsonaro alla coppia Salvini-Meloni), aveva alcuni caratteri consolidati: la difesa dell’ordine politico occidentale e dei rapporti Usa-Ue, la difesa del libero mercato e della sua proiezione transnazionale, e il presidio di un sistema politico fondato sulla limitazione dei poteri politici sovrani, a vantaggio dell’autonomia della società e degli individui. La “rivoluzione conservatrice” reaganian-thatcheriana era, grosso modo, quella cosa lì. E su quella linea aveva indirettamente guidato la trasformazione della sinistra mondiale nella stagione clintoniana e blairiana, che provò, con notevole successo, a salvare il bambino della globalizzazione senza buttarlo via con l’acqua sporca di una retorica in larga misura posticcia, ma un po’ troppo brutalmente darwiniana.

Ecco, la “nuova” destra conservatrice nasce esattamente in opposizione ai successi della “vecchia” destra conservatrice, intestati per comodità alla “nuova” sinistra liberal-liberista, a cui oggi è imputata la rottura del paradigma nazionalista, che ha aperto la strada alla globalizzazione economica, politica e demografica, all’integrazione dei mercati e delle istituzioni internazionali e alla pluralizzazione dei costumi e dei consumi, delle credenze e delle fedi e quindi allo sgretolamento delle identità tradizionali.

Giorgia Meloni è stata in questi anni, quanto Matteo Salvini, un’infaticabile propagandista delle più indecenti panzane nazionaliste: dal cosiddetto piano Kalergi per la sostituzione etnica degli italiani, all’accusa di depredazione economica dell’Italia da parte dell’Europa delle banche, obbediente all’imperio franco-tedesco.

Non c’è praticamente capitolo di quell’enorme Protocollo dei Savi di Sion populista e sovranista, che si è provveduto a scrivere e a diffondere negli anni dell’antipolitica, che ieri FdI abbia mancato di sposare e oggi abbia provveduto a rinnegare. I nomi di Giulio Tremonti, di Marcello Pera e di Luca Ricolfi non servono affatto a recidere le radici con la storia post-fascista, ma a legittimare il ripudio del conservatorismo liberale in nome di un conservatorismo reazionario.

Tremonti serve a giustificare il nuovo bipolarismo sovranismo-globalismo e ad accusare la sinistra di avere sostituito il comunismo con il “mercatismo” e di avere violato i diritti naturali degli uomini e delle nazioni. Pera serve a giustificare un identitarismo politico-religioso costruito su una sorta di moralismo clericale, su un ratzingerismo un po’ di lotta e un po’ di governo: il gender come problema del mondo, i valori non negoziabili in materia di morale sessuale e familiare come Santo Graal della destra del futuro.

Ricolfi serve a dare una rispettabilità “realista” al pendolarismo ideologico della Meloni, oggi, dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina, a metà tra polacchi e ungheresi, tra i peggiori avversari di Putin e i più scontati complici del Cremlino. E proprio Ricolfi, nei giorni della convention di FdI, ha tracciato la rotta di un possibile accomodamento: basta dare qualche pezzo di Ucraina a Putin, e tutto si risolve. Perfino Nordio, recente idolo del pantheon di FdI, serve, più che al rewashing garantista, alla precostituzione di un alibi manettaro. Si invita lui, che agevolmente si presta, e si parla dei mali della giustizia italiana, per giustificare meglio il no ai referendum sulla limitazione del ricorso alla custodia cautelare e sulla legge Severino.

La convention di Milano, dunque, da molti punti di vista, non è stata una “nuova Fiuggi”, ma una “contro-Fiuggi”, non un modo per entrare nell’alveo della destra di governo europea, che nel frattempo ha perso i pezzi fino quasi a scomparire in Francia e a ridimensionarsi pesantemente in Germania e in Spagna, ma una tappa del processo di sostituzione della destra “normale” con una destra sovranista. Guardando la geografia del centro-destra e della destra europea si tratta di un’operazione tutt’altro che impossibile, ma non esattamente provvidenziale né per i destini dell’Italia, né per quelli dell’Ue.

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