Ricorre oggi la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia che, anche nota con l’acronimo IDAHOBIT o IDAHOT+, fu ideata nel 2004 dall’attivista martinicano Louis-George Tin e celebrata, la prima volta, il 17 maggio dell’anno successivo. Largamente promossa dalle Nazioni Unite e attualmente osservata in oltre 130 Paesi, essa è stata ufficialmente istituita a livello europeo il 26 aprile 2007 con relativa risoluzione del Parlamento. Risoluzione, questa, che è stata espressamente richiamata dall’oramai ben nota circolare del ministero dell’Istruzione al centro delle ultime polemiche di Fratelli d’Italia e Lega da sempre uniti nell’ossessione antigenderista. Insomma, la solita tiritera della peggiore destra italiana, che si è stracciata le vesti contro uno scarno testo in cui non si fa che invitare docenti e scuole di ogni grado «nell’ambito della propria autonomia didattica ed organizzativa» a creare «occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali».
Sarebbe perdita di tempo soffermarsi ulteriormente su una tale ridicola crociata, la cui risposta migliore è indubbiamente costituita dall’odierno messaggio del presidente della Repubblica – è dal 2010 che il Capo dello Stato rilascia un’ampia dichiarazione in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia – e dalle innumerevoli veglie di preghiera in luoghi di culto cattolico, non poche delle quali avranno luogo in serata con la partecipazione di vescovi.
Resta piuttosto da chiedersi perché una tale ricorrenza sia celebrata il 17 maggio e quali sono le finalità a essa sottese. La data odierna fu scelta per commemorare una decisione storica: il 17 maggio 1990 l’Organizzazione mondiale della Sanità stabilì infatti che l’omosessualità fosse definitivamente depennata dalla classificazione delle malattie mentali. La pur tardiva depatologizzazione di quello che, per la prima volta, da un organismo scientifico internazionale fu definito «variante naturale del comportamento umano» e «una caratteristica della personalità», abbatté finalmente una delle prime cause di discriminazione per orientamento sessuale. Si sarebbe invece dovuto attendere il 18 ottobre 2018 per vedere l’Oms cassare l’incongruenza di genere – ossia il disaccordo fra genere assegnato alla nascita e identità di genere, precedentemente indicato come disforia di genere – delle patologie mentali e del comportamento, collocandone la relativa diagnosi in nuovo capitolo dell’ICD-11 (undicesima edizione dell’International Classification of Diseases in vigore dal 1° gennaio scorso) intitolato Condizioni associate alla salute sessuale.
Nonostante l’importante duplice atto dell’Organizzazione mondiale della Sanità l’omo-lesbo-bi-transfobia si presenta pur sempre come radicato pregiudizio ben lontano dall’essere estirpato. Le stesse decisioni dell’Oms sono ancora rigettate da quanti si fanno sostenitori e attuatori delle cosiddette “terapie riparative”, la cui antiscientificità si tinge d’un carattere quasi criminale soprattutto se praticate su minori. Sono atti d’inaudita violenza al pari di quelli che si concretano nelle aggressioni e, in forma estrema, nelle uccisioni. Bisogna poi ricordare che in 67 Paesi i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso sono puniti per legge con pene carcerarie fino all’ergastolo. Numero che, in realtà, va portato a 69 considerando che in Egitto e Iraq sono criminalizzati de facto. In cinque Paesi vige inoltre la pena di morte: mentre in tre di essi (Arabia Saudita, Iran, Yemen) essa è applicata sull’intero territorio statale, negli altri due (Somalia e Nigeria) solo in alcune specifiche province. In altri sei, infine, cioè Afghanistan, Brunei, Emirati Arabi, Mauritania, Pakistan, Qatar ne è contemplata la possibilità anche se da tempo non è irrogata a chi si macchiasse di “sodomia”. Doppia stigmatizzazione e violazione dell’umana dignità è quella, infine, che subiscono le persone transgender, le cui morti per omicidio sono annualmente ricordate il 20 novembre (Transgender Day of Remembrance) e il cui numero, purtroppo, non tende mai a diminuire quanto ad aumentare.
I casi di violenza e discriminazione verso le persone Lgbt+ sono drammatica emergenza anche in Italia, come spesso attestano le cronache e come annualmente ricorda l’Oscad rilevando che circa i casi censiti si tratta sempre di stime per difetto. E questo perché il monitoraggio dei crimini d’odio risente fortemente di due problematiche: l’under-reporting (ossia la mancanza di denunce, che determina una sottostima del fenomeno) e l’under-recording (ovvero il mancato riconoscimento della matrice discriminatoria del reato dal parte delle forze di polizia e degli altri attori del sistema di giustizia penale).
Non meraviglia pertanto che l’ultima Rainbow Map di Ilga-Europe, ufficialmente presentata a Cipro il 13 maggio durante il convegno di IDAHOT+, collochi l’Italia al 33° posto in riferimento alla situazione delle persone Lgbt+ nei 47 Paesi del Consiglio d’Europa in una con Bielorussia e Federazione Russa. Su una scala di riferimento che, basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti, va da 0 a 100%, essa si attesta inoltre al 24,76%. È vero che c’è un lieve miglioramento rispetto allo scorso anno ma è indicativo che a direttamente precederla in tale classificazione siano Paesi come l’Ungheria, la Macedonia del Nord, la Repubblica Ceca sopravanzandone di poco altri come Georgia, Lituania, Lettonia.
Rilevando come «l’Italia guadagni pochissimi punti percentuali, attestandosi al 33° posto rispetto al 35° detenuto 2021, e sia così appaiata a Paesi che non hanno una reputazione positiva in materia di legislazioni e politiche in tema di diritti umani delle persone Lgbt+», Triantafillos Loukarelis, coordinatore dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), spiega a Linkiesta: «Un posizionamento, il nostro, dunque poco dignitoso. È pur vero che quella percentuale bassa è dovuta soprattutto a un vivere di rendita rispetto alla legislazione sulle persone trans, che risale al 1982, e quella sulle unioni civili del 2016. Ha invece influito positivamente lo stato di buona salute delle associazioni Lgbt+».
Della medesima opinione anche la senatrice di Azione Barbara Masini che, nel ricordare l’intervento fatto in Aula il 15 luglio 2021 sul coming out alla madre e sulla vita di coppia con Pamela, dice al nostro giornale: «Decisi di raccontare di me, stanca delle cose aberranti e offensive dette da tanti colleghi e colleghe sulle persone Lgbt+ mentre era in corso il dibattito sul ddl Zan. Non entro nel merito del testo di legge in sé e su alcune criticità che esso solleva. Ma è indubitabile che l’Italia ha bisogno di dotarsi quanto prima di una normativa che contrasti seriamente le violenze e discriminazioni verso le persone Lgbt+».
Per la parlamentare toscana l’odierna Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia consente anche un’«amara riflessione sul preoccupante ritorno verso la chiusura, la ghettizzazione, il giudizio, lo sfottò fino alla marginalizzazione e alla violenza. Necessario, dunque, più che mai affermare orgogliosamente chi siamo, perché, come mi ha recentemente ripetuto l’ex presidente di Arcigay nazionale Paolo Patanè, “lo spazio di libertà che ho riservato a me stessa è uno spazio di libertà che ho creato per altri”. E questo vale per ogni persona Lgbt+, che decide di fare coming out».