Giulio Bollati è stato e rimane l’editore ideale: un letterato colto, capace di gestione e guida sapiente del progetto. Laureato alla Università Normale di Pisa, era entrato nel dopoguerra nella squadra Einaudi, si era guadagnato la stima di Giulio Einaudi, tanto da diventare direttore generale della casa editrice. Nell’ambiente si diceva come l’Einaudi fosse l’unica casa editrice ad avere due editori: ed era vero, nel bene e nel male: non poteva durare a lungo. Del tutto complementari da un lato, i due Giulii, come li si diceva, non lo erano dall’altro: e pure i caratteri non aiutavano. Rimane un fatto: nessuno è stato editore come e quanto Giulio Bollati.
Dove letterato va inteso in senso umanistico: avvertito della speculazione filosofica e scientifica, erudito di storia e non solo letteraria, versato alla scrittura saggistica e disciplinato alle arti figurative. (Scelgo e uso letterato in luogo di intellettuale per esplicite ragioni ideologiche: privilegio il letterato della prima Modernità, rispetto l’intellettuale “organico” del Novecento). Ebbene, Bollati è stato, in pieno Novecento e in prima linea, perfetta figura del letterato à la Leopardi e portato alla costruzione, e così in primis editore: il primo in un bel manipolo di protagonisti: Giulio Einaudi, Mario Spagnol, Cesare De Michelis, Roberto Calasso. Tutti letterati e veri editori. Sono gli uomini che hanno dato lustro e sostanza all’editoria italiana.
Per eccellenza di gusto e superiorità di conoscenza, a Bollati era riservata la scelta della illustrazione (illustrazione, non immagine) di copertina, quando era in Einaudi. A quel tempo le copertine della collana Supercoralli formavano una galleria della pittura e di gran gusto: noi matti dei libri si giocava a riconoscere le opere e, a volte, gli autori o le date. Si facevano scoperte, anche: a volte erano opere di pittori non conosciuti: ricordo l’interrogarsi stupito davanti alla copertina di La Casa Verde, di Mario Vargas Llosa. Era un ri-conoscere forme e già dalle copertine.
(Il declino della editoria di cultura lo si intende già dalla grafica e le illustrazioni di copertina: sono quasi sempre fotografie o dettagli di quelle, inerti e già consunte di figurazione come un quadro della Pop Art: vivono solo per il tempo di quel frisson che è il quid della comunicazione: valgono una per l’altra e soltanto per via di luogo comune figurativo. Sono nate per farsi guardare in fretta, come quelle migliaia e migliaia di romanzi nati per farsi leggere con altrettanta fretta e senza nessun acquisto – non dico di idee, almeno di realtà –, sempre e soltanto perdita, perlomeno di tempo. Dove la parola rivelatrice, tanto cara agli orecchianti, spicca: quella fotografia è evocativa. Di cosa, inutile chiedere e chiederselo).
Giulio Bollati letterato e versato alla storiografia: non è meno importante del Bollati editore – della sua casa editrice, la Bollati Boringhieri dico poco più avanti. Nel 1983 pubblica nella collana Nuovo Politecnico, una sua creatura, un libro che diventerà indispensabile: L’italiano: e con un sottotitolo che è già una dichiarazione: Il carattere nazionale come storia e come invenzione. Ma non corriamo troppo – non è luogo. Il libro raccoglie i saggi di Bollati scritti per varie occasioni editoriali, tra cui quello che dà il titolo alla raccolta, pubblicato nel primo volume (I caratteri originali) della Storia d’Italia della Einaudi. Tra questi, e in chiusura, un articolo pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti (il n. 5 di quel 1983), dal titolo Peripezie italiane di politica e cultura. Fermiamoci qui, a questo testo. Il primo paragrafo è narrativo: in scena Bollati e Calvino (non nominato), con quest’ultimo che si china “con aria meticolosa sulla mela che aveva davanti, come se dovesse leggerla invece di mangiarla”, poi un a frase di C. che non riporto per rispetto dell’attesa del lettore. Ce ne sarebbe più che a sufficienza per intendere quale e dove sia il genio di Bollati; ma si può fare di meglio. Ecco l’inizio del paragrafo successivo, dove è Bollati a dire di C. in prima persona: “Lo apprezzavo per la sua capacità di cogliere a volo i mutamenti anche minimi della politica, della cultura, delle mode intellettuali, un vero sismografo; anche se mi irritava la facilità con cui prendeva atto delle novità senza inutili sentimentalismi”. Difficile dire meglio quel lato di Italo Calvino; ma qui a importare è quel che ne sortisce di Bollati: il fastidio per la leggerezza, che di lì a un anno diventerà “insostenibile”, come dal romanzo di Kundera stravolto in tiritera postmoderna, e a rinforzo l’avversione per gli “inutili sentimentalismi”. Non si potrebbe dire meglio l’anima, il midollo illuminista e moderno di Giulio Bollati. Spostiamoci alla nota editoriale da lui vergata che segue la Premessa: “Ringrazio vivamente l’Editore, anche per aver offerto ospitalità a questo libro in una collana a me cara; e ringrazio gli amici dell’ufficio tecnico Einaudi per l’assistenza prestatami con la ben nota competenza”. Ecco l’altro dato: la sottile eleganza.
Nel 1987 Giulio Bollati diventa l’editore della casa editrice nata dall’acquisto, da parte della sorella Romilda, della Boringhieri, la casa editrice di Paolo B., precoce transfuga da Einaudi e amico di Bollati. La casa editrice diventa Bollati Boringhieri: la più bella casa editrice, con la Adelphi, di quel giro d’anni che ha fine nel 1996, l’anno della morte di Bollati. Dieci anni soltanto e bastanti a lasciare il segno. Certo per Giulio Bollati è il progetto ad hoc: all’impareggiabile catalogo delle edizioni scientifiche Boringhieri affianca un catalogo di testi di filosofia, economia, letteratura di grande qualità. È il progetto einaudiano originale, diventato mutilo proprio delle edizioni scientifiche, cedute a Paolo Boringhieri, che ne era il responsabile in casa editrice: e per le cure del miglior editore possibile a quel progetto: lui, Giulio Bollati. L’Einaudi aveva iniziato, da tempo, il lungo declino che la porterà alla perdita della propria identità; Giulio Bollati raccoglieva il testimone e riproponeva il suo progetto. Inutile elencare i titoli e gli autori di qualità proposti da Bollati: valga il coronamento del catalogo, la collana Pantheon: l’edizione del Politecnico di Carlo Cattaneo, l’edizione completa del Caffè, la rivista degli illuministi e aristocratici milanesi, fino al capolavoro editoriale: l’edizione completa dell’Epistolario di Giacomo Leopardi. Tre opere che dicono l’essenza del progetto di una Modernità italiana – e chi sa che Bollati non avesse in serbo la nuova edizione delle opere di Francesco De Sanctis. Non si scappa: gli illuministi del Caffè, Pietro Verri e Cesare Beccaria, Leopardi e Manzoni, i’imprescindibile Carlo Cattaneo. Non serve molto altro.
(Tutto per dei libri caratterizzati dalla elegante e rigorosa grafica di Pierluigi Cerri, una carta di qualità per dei libri destinati a durare, una cura editoriale degna di nota – di particolare cura, le riproduzioni di opere d’arte. C’è una perfetta corrispondenza tra progetto editoriale e grafica dei libri: una certa eleganza, vien da dire bodoniana. Tutto questo durerà per qualche anno, il tempo in cui Romilda Bollati cercherà di trovare qualcuno in grado di continuare l’opera del fratello. Non poteva succedere –non più, perlomeno. Verrà il tempo della cessione, e tutto il resto).
Leopardi e Manzoni – la coppia storia/invenzione è manzoniana, e quasi clausola – più le peripezie italiane di politica e cultura sono al centro della riflessione storica e critica di Bollati. La nuova Bollati Boringhieri ha accolto la suggestione di Alfonso Berardinelli di raccogliere i saggi di Bollati apparsi come introduzioni a classici italiani di Einaudi, più il fondamentale La prosa morale e civile, in un libro dal titolo L’invenzione dell’Italia moderna, del 2014. È un libro che andrebbe letto al ginnasio. Il tema di Bollati, come ben rileva Berardinelli, è il contrasto fra due tipi di letterato e il conseguente diverso approccio alla Modernità: l’aristocratico sdegno e astratto furore dell’Alfieri, che avrà successive declinazioni (oggi rintracciabile e immiserito, a misura della piccola nuova borghesia, negli interpreti di varia petulanza del ruolo di “indignato speciale”) e la distanza critica e l’impegno positivo e politecnico (nella accezione di cui dico sopra) della linea che va da Pietro Verri a Carlo Cattaneo. Questione più che mai attuale e rimossa in ogni sede: dalle università ai quotidiani. Pure l’attenzione prima e puntuale è per Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi: il problema che la Modernità subito pone e chiuso nella clausola storia/invenzione, centrale in Manzoni e irrisolto, invece sviato nel velleitarismo del mito dello scrittore romantico; e la figura del letterato completo, umanista avvertito della filosofia e delle scienze, non riducibile, com’è avvenuto, a poeta lirico del disinganno funesto. Valga leggere il saggio che Giulio Bollati ha scritto per l’edizione einaudiana della Crestomazia italiana. La prosa, di Leopardi. Bollati pone subito la questione che è, con maggiore gravità e pericolo di sordità, la medesima che si pone oggi: “Urgeva dunque una prosa: cioè il progetto e la norma razionale di un universo, da opporre ad altri progetti e norme, ad altri universi. Le Operette morali sono questo, e la Crestomazia ne è un completamento marginale ma autonomo”. Il forte tentativo leopardiano si risolse in sconfitta, come sappiamo, e in questo Bollati ha ragione: pure credo che accoglierebbe un punto: resta il nodo primo del garbuglio da sciogliere per la letteratura e non solo. Una prosa italiana e subito.
Giulio Bollati è stato e rimane figura prima dell’editore di cultura e letterato di vaglia: dove si intende l’editore come costruttore e dunque uno dei pilastri della Modernità. Vale ribadire la sua lucidità nell’intendere la necessità di un patto dei produttori: cultura e industria, parallelo a quello tra lettere e scienze: la modernità si costruisce a partire da quel patto. Sappiamo come il patto sia stato infranto e quando: si tratta, per chi continua a credere nella Modernità, rimasta irrealizzata, di riproporlo in atto. (Non vale per un europeo quella indisponente interpretazione della Modernità che è la American Way of Life: è altra cosa, quasi parodia, ed è bene tenerlo a mente). Gli industriali (non: gli imprenditori) ci sono, ancora; i letterati capaci di gestione e guida di un progetto, pure; e il terreno d’incontro non può che essere la Modernità. Abbiamo bisogno di nuovi Giulio Bollati – e di nuovi Adriano Olivetti.