C’è una differenza fondamentale tra l’iniziativa promossa oggi dal Partito democratico attorno a un documento sul sistema proporzionale e le mille iniziative con cui in questi anni partiti e associazioni hanno lanciato ora l’una ora l’altra riforma elettorale o istituzionale. E la differenza è proprio qui, nel fatto che il documento presentato da Matteo Orfini ed elaborato dal gruppo che si raccoglie attorno all’associazione Left Wing (quorum ego), attorno al quale hanno finalmente deciso di sedersi a discutere i rappresentanti di tutte le correnti del Pd, non parte ancora una volta dallo spiegare i vantaggi di un particolare sistema rispetto a tutti gli altri.
Il punto di partenza è piuttosto la semplice constatazione di come trent’anni di tentativi infruttuosi, da quando nel 1993 abbiamo detto addio al sistema proporzionale, abbiano reso non più rinviabile l’esigenza di tirare un bilancio, guardarsi negli occhi e fare i conti con la realtà.
Possiamo infatti continuare a prenderci in giro, ricominciare sempre da capo la battaglia su questo o quel sistema elettorale, che a sua volta, per funzionare, richiederà sostanziali modifiche costituzionali, e andare avanti così all’infinito. È quello che abbiamo fatto nella precedente legislatura, con due anni e passa di battaglie attorno alla riforma costituzionale, e alla legge elettorale connessa, azzerate in un attimo dall’esito del referendum del 2016, proprio come nel 2006 un referendum aveva azzerato il tentativo promosso dal centrodestra a colpi di maggioranza, finito nel nulla anche quello, proprio come tra fine anni Novanta e inizio Duemila, senza nemmeno bisogno di arrivare a un referendum, era finito nel nulla il tentativo della bicamerale.
Possiamo continuare così all’infinito, ma dobbiamo dirci la verità, e cioè che l’unico risultato concreto sarà quello che abbiamo visto sin qui: un sistema che non garantisce né governabilità né rappresentanza, e in cui ogni schieramento si sente autorizzato, di volta in volta, a tentare di cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio (il fatto che poi due volte su tre gli vada pure storta testimonia solo l’estrema ingovernabilità del tutto), con l’unica eccezione, a onore del vero, del Movimento 5 stelle, che è sempre stato contrario al maggioritario e alle coalizioni pre-elettorali. L’unico concreto risultato di tanti sforzi è un sistema che offre il massimo della frammentazione e il minimo delle garanzie, in cui alla fine non vince mai nessuno ma qualcuno s’illude sempre di poterne approfittare. Ed è proprio per questo che non si riesce mai a venirne fuori davvero.
La via d’uscita da un simile incubo appare pertanto anche oggi, e apparirà sempre, in salita. Ciò nonostante è degno di nota che finalmente la questione venga posta nei suoi termini propri, guardando la luna anziché il dito, e cioè la follia di un sistema in cui da trent’anni Parlamento e opinione pubblica sono perpetuamente impegnati in una guerra ideologica sulle regole del gioco. Tornare al proporzionale significa anzitutto uscire da questa trentennale ossessione, finirla con il regolismo, spezzare l’incantesimo di questo eterno giorno della Marmotta in cui si parla sempre delle regole del gioco e non si gioca mai. Un meccanismo che logora la legittimazione di partiti e istituzioni, tanto più pericoloso in una fase storica in cui tornano i peggiori fantasmi del passato, specialmente dopo che abbiamo ulteriormente alterato l’equilibrio di pesi e contrappesi del sistema con il taglio lineare dei parlamentari. Di qui l’esigenza di fermare la giostra e ricostruire un sistema in cui ciascun partito si presenta con il suo simbolo e il suo programma, prende i voti su quelli e prende seggi in proporzione ai voti, magari anche con un’opportuna soglia di sbarramento anti-frammentazione.
Con questi chiari di luna, avere un quadro di regole stabile e condiviso è prima di tutto una questione di sicurezza nazionale. Il Partito democratico sembra essersene finalmente reso conto. Speriamo non sia il solo.