Ma voi vi rendete conto di quanto siamo fortunati? Di che epoca priva di problemi reali epperciò con eccessi di tempo libero che ci permettono di trastullarci con problemi immaginari sia questa? Ma ci pensate mai alle nostre nonne?
Lunedì sera c’è stato il ballo che ogni anno, al Metropolitan Museum, permette alle celebrità di tutto il mondo di farci vedere quanto sono spericolate le scelte dei loro costumisti. Se non sapete che la moda è importantissima smettete di leggere subito perché io e voi non abbiamo niente da dirci.
In Strega comanda colore (Mondadori), l’io narrante di Chiara Tagliaferri scende dalla provincia per diventare adulta a Roma, la città dove meno si sanno vestire (e, a cascata, meno sanno mangiare, meno sanno parlare, meno sanno pensare). Era una ragazza che ritagliava le pagine dei giornali di moda (il Novecento, che nostalgia), è una donna che va per mercatini a cercare preziosità nascoste: scandisce ogni dramma o gioia della sua formazione con acquisti da indossare o collezionare. (Se pensate al mondo possa esistere cosa più importante che scoprire un Saint-Laurent che la venditrice non aveva riconosciuto, io e voi non abbiamo niente da dirci).
Il gran ballo del Met non serve alle provinciali che amano i vestiti: serve alle provinciali che si vantano di non amarli. Che ogni volta che vedono le immagini di una sfilata sospirano «ma chi se la mette, quella roba»; e che ogni anno, davanti a una voluttuosa baracconata, possono esaltarsi convinte che saranno loro a svelare al mondo che quella è una baracconata, ché certamente tutti quei milionari non eran consapevoli della stravaganza con cui si stavan conciando.
Ogni anno al Met c’è uno scandalo con cui trastullarci, uno scandalo in minore, e quest’anno lo scandalo è stata Kim Kardashian. Non perché fosse alla sua prima uscita mondana con Pete Davidson (che stia con un arnese così orrendo evidentemente indigna solo me); perché indossava il vestito di Marilyn Monroe, quello con cui Marilyn, due mesi prima d’ammazzarsi, cantava «buon compleanno» al presidente degli Stati Uniti, John Kennedy.
Il vestito è considerato un reperto storico, non si poteva modificare, e Kardashian non ci entrava: è dovuta dimagrire sette chili in tre settimane, o almeno così ha raccontato (non diciamo la verità noialtre ai nostri dodici follower, mi sembra perlomeno ingenuo prendere come fosse testimonianza giurata una dichiarazione di Kim Kardashian sulla dieta che ha fatto per entrare nel vestito della Monroe).
Sull’internet si sono formate due file ben ordinate.
Quelli indignati perché come osa toccare il vestito di Marilyn, non avrebbe mai dovuto metterlo, l’avrà senz’altro rovinato, come si permette, questa cialtrona, questa senza talento, questa postmoderna non sacralizzata da un decesso prematuro.
E quelli indignati perché dire che sei dimagrita sette chili per entrare in un vestito fa diventare anoressiche le ragazze. Adulte che hanno superato cicli scolastici e ottenuto certificazioni del loro essere normodotate e alfabetizzate dicono seriamente che una malattia psichiatrica è causata dal fatto che una che di lavoro si mette dei vestiti racconti d’essere stata tre settimane a dieta per mettersi un vestito.
La stola che Marilyn portava sulle spalle, la sera del quarantacinquesimo compleanno di Kennedy, Kardashian la teneva appoggiata sui fianchi. Un vezzo? No, un’emergenza. La secondo-le-commentatrici-evidentemente-anoressica Kardashian era ancora così culona che era stato impossibile tirare su la lampo, e quindi tra la vita e le chiappe il vestito era rimasto aperto sulla sottostante guaina. Le foto in cui si nota il dettaglio sono tra le più immedesimabili della storia dei red carpet: ah, come ti sentiamo vicina, multimilionaria cui non sale la lampo.
(Anni fa, Courtney Love raccontò che aveva capito di doversi mettere a dieta dopo che, scattando un servizio fotografico per l’edizione italiana di Vogue, le avevano dovuto lasciare aperte tutte le lampo perché nessun vestito le si chiudeva. Tuttavia per il servizio aveva posato comunque e l’avevano comunque pubblicato, anche se pesava 87 chili: «Il mio problema è che mi trovo comunque fighissima»).
Nessuna si è indignata, come sarebbe accaduto quando io e Tagliaferri eravamo ventenni, perché Kardashian non è stata abbastanza disciplinata, nel suo digiuno, da far salire la lampo: siamo pur sempre l’epoca che si è inventata la body positivity e finge fortissimo di credere alla fine dei canoni estetici.
Ma, quel che è più grave, nessuna si è indignata per la sacralizzazione del vestito di una che quella sera di sessant’anni fa stava evidentemente già malissimo e cantava ubriaca e impasticcata; ma, siccome ne esiste un solo filmato in bianco e nero e non mille storie di Instagram che bastino a venirci a noia, abbiamo deciso di farne un modello comportamentale e un santino, invece che quel che è: una che stava per ammazzarsi. Ai segnali di disagio di una che poi s’ammazza restiamo lietamente indifferenti, però siamo pronte a proiettare anoressia e altre sindromi immaginarie sulle folle che dovessero leggere le dichiarazioni della Kardashian.
Meno male che se l’è messo Kardashian, quel vestito, speriamo gli abbia trasmesso la propria apparente fame di vita e l’abbia liberato della maledizione della dolenza. E meno male, anche, che abbiamo tutto questo tempo libero: le nostre nonne, mentre lavavano i panni al fiume sotto le bombe della prima guerra mondiale, dovevano rinunciare a piaceri dello spirito quali l’indignarsi per il vestito indossato da Eleonora Duse.