Il problema non è tanto la distanza ormai siderale tra Enrico Letta e Giuseppe Conte ma il fatto che non se ne traggano le conclusioni politiche, cioè dirsi addio. «Andiamo avanti», invece dicono al Nazareno con un ottimismo della volontà che andrebbe meglio coltivato per altri obiettivi che non questa finta unità con l’avvocato scatenato. Perché il problema è lui. La sua voglia di revanche, direbbe Emmanuel Macron, come quella che animò i francesi dopo la prima guerra mondiale: la rivincita per l’onta di Sedan di cinquant’anni prima.
La questione qui è molto meno altisonante e parla di un Conte come Nino Manfredi in una indimenticata pubblicità di un caffè diceva che più lo mandi giù e più ti tira su: più va giù nei consensi più l’avvocato alza i toni, si scatena perché tenta di dare un nuovo profilo al suo partito che perde progressivamente quota e sta per stramazzare al suolo alle amministrative di giugno (il Movimento 5 stelle si presenta poco e male), e l’uomo reagisce sparando su tutto ciò che gli capita a tiro, dalle armi all’Ucraina al termovalorizzatore di Roma (dove si segnala una ringhiosa Virginia Raggi, sua seguace).
E dunque Letta può metterci tutta la pazienza cattolica di cui dispone ma alla fine si scoccia anche lui, se persino il comunicato ufficiale emanato alla fine dell’incontro di ieri tra i due leader fa capire che il faccia a faccia è andato male: «Non si sono nascoste le tensioni di queste settimane».
Non ci vuole molto a tradurre che la lunga chiacchierata (ben due ore nella sede dell’Arel (Agenzia di ricerche e legislazione) è stata molto tesa, anche perché il segretario del Partito democratico non aveva visto di buon grado le parole che l’avvocato aveva consegnato al Foglio nelle quali in sostanza sosteneva che Letta era venuto sulle sue posizioni. A questa rappresentazione Enrico non ci sta.
Non è che se parla di pace o di negoziato questo significa che ha abbandonato la linea dura verso la Russia o rivisto la posizione sull’invio di armi all’Ucraina. Quindi, pur nella cordialità che segna il rapporto umano tra i capi di Pd e M5s, nella sostanza si è preso atto che la distanza tra i due partiti è reale e non accenna a diminuire. Poi si vedrà.
Per capirci, se le elezioni dovessero esserci domani i due partiti non sarebbero in grado né di stringere un accordo elettorale, né di disegnare un percorso politico per il dopo-elezioni.
Così è ridotta la ex alleanza strategica che per tre anni ha rallentato un processo, diciamo così, di emancipazione del Pd dal grillismo contiano, incarnazione trasformistica dell’antipolitica, istituzionalizzazione del populismo, parossistica ricerca del potere.
Con l’avvento di Letta dopo l’infausta segreteria di Nicola Zingaretti il rapporto con il M5s era diventato meno ideologico e più pragmatico: ma da un certo di vista, posto così, quel rapporto si è dimostrato ancora più esposto ai rischi di rottura, come puntualmente sta avvenendo.
La guerra è uno spartiacque, lì mediare è impossibile. Quello che appare certo è che il Conte scatenato più che una mina sul cammino del governo (Mario Draghi non se ne preoccupa troppo, sa di non avere alternative fino alla fine della legislatura, anche forte del sostegno di Luigi Di Maio), è un ostacolo insormontabile al progetto lettiano di campo largo.
Bisognerebbe che a questo punto il gruppo dirigente del Pd si rendesse conto che questo M5s non porta altro che guai puntando in primo luogo a rafforzare se stesso e guardando altrove. Questa storia è finita, e pure male. Quello che sconcerta è che non lo si ammetta e non se ne traggano le conclusioni. Ma diamo tempo al tempo.