Per la prima volta un hedge fund ha vinto uno dei principali campionati europei di calcio.
Finora c’erano stati i fondi sovrani di Bahrein e Qatar, proprietari del Manchester City in Inghilterra e del Paris Saint-Germain in Francia, ma si tratta appunto di espressioni di proprietà statali gestite in prima persona dalle famiglie governanti.
Elliott Management Corporation è invece un fondo d’investimento a carattere speculativo fondato nel 1977 da un aggressivo avvocato d’affari, Paul Singer, inizialmente specializzato nella negoziazione e nella riscossione dei titoli obbligazionari dei Paesi in default.
Elliott si è ritrovata la proprietà di uno dei più gloriosi club del mondo in virtù di un finanziamento non rimborsato di 300 milioni di euro in favore dei misteriosi acquirenti cinesi del Milan, i quali avevano versato 700 milioni al vecchio proprietario, Silvio Berlusconi.
Un grande affare per il leader di Forza Italia che pure, secondo calcoli attendibili, in circa trent’anni vi aveva investito una somma vicino al miliardo, con cui ha portato la società milanese ai vertici del calcio internazionale (cinque Champions, tre Coppe Intercontinentali, otto scudetti e coppe varie di secondo piano, per un totale di 29 trofei, quasi uno all’anno).
Oggi Elliot, dopo soli quattro anni di gestione, sta trattando la vendita del Milan con un altro fondo di private equity statunitense, RedBird Capital, per una cifra che supera il miliardo dopo averne rifiutata un’altra di analoga portata, secondo fonti attendibili.
Dunque la storia del glorioso Diavolo rossonero (123 anni di vita) si è arricchita di un inatteso capitolo finanziario che, in caso di cessione, sancirà il verdetto di una vicenda imprenditoriale di successo. È presto per dire se il cammino ricalcherà le orme dell’epopea berlusconiana (difficile, a dire il vero) ma di sicuro lo scudetto vinto allo sprint contro l’Inter dei cinesi di Suning può dare vita in futuro a un derby finanziario con il fondo Oaktree, a sua volta creditore dell’attuale proprietà neroazzurra per circa 400 milioni di euro, e rappresenta un’assoluta novità per il panorama calcistico nazionale, contrassegnato da un forte provincialismo imprenditoriale.
Molte furono le ironie alla notizia dell’ingresso di un fondo speculativo (e dunque espressione della rapacità finanziaria statunitense, secondo la vulgata populista diffusa in Italia) mentre la Juventus, assoluta dominatrice del campionato e due volte vice-campione in Europa, si concedeva il lusso dell’acquisto di Cristiano Ronaldo, il numero 1.
La Storia (quella con la S maiuscola) ha scritto un finale inaspettato e amaro, anche se col campione lusitano il club di Torino ha pur sempre vinto due scudetti (l’ultimo dei quali con un solo punto di vantaggio) ma non sono arrivate la Champions e soprattutto l’agognata Superlega europea, il torneo riservato ai club più prestigiosi e ricchi che avrebbe dovuto spezzare l’egemonia dell’Uefa sulle competizioni europee.
Un appuntamento che però è solo rimandato (pende davanti alla Corte di giustizia europea un ricorso per lesione del diritto alla libera concorrenza avanzato da Juventus Real e Barcellona) e che può ricevere un ulteriore impulso dal cambiamento che la vicenda Elliott-Milan ha indubbiamente costituito.
Sino ad oggi il modello cui tutti i Paesi guardano è quello inglese, contrassegnato da forti investimenti, strutture d’avanguardia, ma soprattutto elevata spettacolarità tecnica.
Questo è il punto fondamentale che sta trasformando il calcio moderno: la sempre più forte connessione con l’industria dello spettacolo in senso stretto.
Dopo due anni di pandemia e di stadi malinconicamente vuoti, di urla nel silenzio di giocatori e tecnici, il grande pubblico si è riversato in massa negli stadi. Inter e Milan hanno entrambi registrato a fine annata un record di presenze incredibile, superiore al milione di presenze complessivo. Un risultato ancor più rilevante se si pensa che per tutto il girone di andata gli accessi sono stati limitati per le restrizioni emergenziali.
Il primo a credere nel connubio tra calcio e spettacolo visivo è stato Silvio Berlusconi, che ha reso il suo Milan anche un prodotto televisivo (riprese accurate, interviste, programmi di sport misto a entertainment).
Meno scontato era che il football, trasmesso reiteratamente e in tutte le salse dalla tv, potesse costituire ancora una fonte di forte richiamo – nonostante il Covid – come forma di pubblica condivisione e fruizione di un evento.
Eppure altre forme di intrattenimento “condiviso” come il cinema sembrano in crisi irreversibile, uccise dalle serie televisive: il calcio, viceversa, che pure aveva in passato sofferto la concorrenza della tv, sta conoscendo un forte rilancio.
Una apparente contraddizione: in realtà il calcio è (anche) un racconto epico che si nutre di emozioni, termine banalizzato quant’altri mai, ma in realtà parte della percezione sociale che ogni essere umano ha.
Le neuroscienze hanno dimostrato quanto l’emotività sia uno strumento di conoscenza dell’uomo verso la realtà che lo circonda e come costantemente le scelte di fondo in ogni campo, dalla politica alla finanza, alla giustizia e ovviamente allo sport, siano fortemente condizionate dal sommovimento e dal turbamento che il sentimento suscita nel cervello.
Una società senza emozioni, impulsi e reazioni è inimmaginabile e non è libera: la condivisione di sentimenti è una componente strettamente connessa alla democrazia come anche sentenze importanti delle corti internazionali e teorie scientifiche sostengono (da noi la sentenza 364/88 della Corte costituzionale. Da questa considerazione deriva la forza dello sport in generale e del calcio in particolare: la capacità di fornire un’epica collettiva.
Per restare allo scudetto del Milan, ogni suo tifoso (come lo è da 60 anni chi scrive) conosce il groviglio di emozioni che ha accompagnato il gol di Tonali contro la Lazio.
Il campionato ha dipanato non solo una serie di risultati tecnici, ma anche una storia dai connotati e dai personaggi fortemente cinematografici.
L’allenatore disilluso e ormai rassegnato ad un ruolo di secondo piano, il ragazzone sfaticato che ciabatta in campo come se si fosse alzato da cinque minuti, il grande mito emarginato dal suo club e chiamato a rifondarlo, il finanziere cinico che va a festeggiare sugli spalti, il presidente dei grandi trionfi che salta coi tifosi fino al personaggio più grande, una sorta di Clint Eastwood rugoso ed acciaccato mandato via per fare cassa dieci anni prima e poi ritornato per salvare la sua vecchia squadra.
«Quando il Milan ha vinto ultimo scudetto io c’ero, oggi ha vinto 11 anni dopo e io sono ancora qua»: applausi scroscianti per Ibra, maschera inarrivabile e grande narratore di un’epica trasversale da bar e da università.
Ma oltre all’emozione c’è anche una prospettiva e un insegnamento: che si può costruire una storia di successo basandosi sulla vituperata etica capitalista, che si può coniugare economia e competenza, emozioni ed algoritmi alla “Moneyball” (il libro con cui un giornalista esperto di statistica ha spiegato come si può costruire un team di baseball vincente cercando giocatori bravi e sconosciuti esaminandone matematicamente le caratteristiche) .
Il calcio è ormai un fenomeno economico (sul Financial Times vi è una sezione appositamente dedicata e curata da un grande scrittore di calcio come Simon Kuper), ma la sua dimensione narrativa e spettacolare è qualcosa di cui oggi la società ha bisogno come leva per risollevarsi.
Occorre forte spirito imprenditoriale, meno maneggioni, un giornalismo meno legato ai poteri delle grandi società, organi giudicanti indipendenti e liberi.
Insomma la metafora di ciò che serve al Paese: sotto questo profilo Pioli e c. sono a andati oltre il campo di calcio.