O***o dei popoliLa passione di Soncini per Wordle e i giochini che fanno sentire intelligenti

Adulti con curriculum di prestigio che si vantano online di avere azzeccato una parola nella propria lingua, io che passo ore a compilare le combinazioni di Spelling Bee. Lo Zeitgeist è questo e chi scriverà la guida per risolvere queste perdite di tempo farà un sacco di soldi

di Nils Huenerfuerst, da Unsplash

A mezzanotte e due d’ogni giorno ho la tentazione fortissima di esporre ai social il Wordle del giorno dopo, che hanno caricato sull’apposita pagina del New York Times a mezzanotte, e che io ovviamente ho già risolto (non perché sono intelligentissima come Anna Carla Dosio: perché è un gioco molto facile, il che è il segreto del suo successo).

L’etica non scritta è che se vuoi vantarti posti la sintesi automatica: in quante mosse hai indovinato la parola del giorno, e quante lettere al posto giusto hai messo nei primi tentativi (il che t’illude che il metodo giusto sia cercare di mettere le lettere giuste subito e far vedere tanti quadratini verdi ai tuoi follower; mentre il metodo che ti porterà alla giusta e rapida vittoria si basa sul maggior numero di errori possibile – ma ora non è che posso svelarvi tutto, sennò non ne farò mai un bestseller).

Alla fine, la schermata del Wordle di domani già risolto stanotte non la posto non perché creda in comandamenti fessi quali «no spoiler», ma perché, come tutti i tossici, quelli di Wordle sono tanti e incattiviti, e sono pure della dottrina «no spoiler», e insomma io li temo.

Non è stato sempre così, non sono arrivata a farmi Wordle in vena tramite il mio abituale tentativo di capire il paese reale e poi finirci dentro, come accadde con Maria De Filippi da grande e con Louisa May Alcott da piccola.

(Un amico dice che la mia ingenuità rende incredibile ch’io abbia scansato l’eroina nella Bologna degli anni Ottanta. Ma è un amico di Milano: non sa che a Bologna, negli anni Ottanta, le pere se le facevano solo i fuorisede, e le ragazze di buona famiglia neanche sapevano cosa fosse un fuorisede. Sapevamo però cos’erano le pere, perché avevamo letto Cristiana F. che, dopo, riusciva a mangiare solo yogurt: se sapete come si mangia a Bologna, capirete che vivere di Yomo non era una gran tentazione).

Ci sono volte in cui, benché una cosa sia il talk of the town, non ne sono minimamente incuriosita. Non mi affaccio neanche a vedere di cosa parlino tutti, un po’ tipo quelli che si vantavano di non avere la tv a fine Novecento o si vantano ora di non stare su Facebook, e lo faccio senza alcuno sforzo (non sforzarmi mai se non retribuita per farlo è il mio principale precetto etico: se mi pagate, posso perfino iscrivermi a TikTok o ascoltare i Måneskin).

Quindi ho guardato per mesi con sussiego tutti gli americani che seguo postare gongolanti il loro risultato di Wordle (cinquantenni che hanno vinto Pulitzer gongolano mamma guarda ho indovinato in sole tre mosse una parola nella mia madrelingua: poi dice il declino delle élite) senza avere la più vaga tentazione di scoprire cosa fossero quei quadratini verdi e gialli.

Poi il New York Times si è comprato Wordle, e ho pure letto qualche articolo sulle imitazioni, il libero accesso che veniva meno ed era meglio quando suonavano nelle cantine, i cattivi del NYT che inserivano nel gioco le parole più difficili impedendo agli affezionati di arrivarci in sei mosse (mamma, guarda, sono l’élite abbonata a un quotidiano e non indovino «yield»).

Ma niente, continuavo a non incuriosirmi. Una sera, fuori dal teatro in cui stavamo per ascoltare quell’un Gianni Morandi che su mille ce la fa, un’amica – una delle mie tutte amiche che ci giocavano – mi ha fatto vedere la schermata di Wordle. Neanche capivo come si giocasse, me l’ha dovuto spiegare tipo a sua nonna, eravamo di fronte al liceo che ai miei tempi facevano quelli bravi e ho pensato: al liceo troppo ciuccia per il Galvani, al museo troppo ciuccia per Wordle.

Ho continuato a trascurarlo. Poi ho cancellato dall’iPad la mia principale perdita di tempo, il mio fattore d’improduttività, il Vangelo della mia procrastinazione – sì, insomma, quel gioco in cui se unisci i pallini dello stesso colore quelli poi saltano per aria – e mi serviva il metadone. Una parola sola al giorno, quanto puoi metterci a indovinarla, due minuti, che male ti fa.

Solo che due minuti aprono solo lo stomaco. A quel punto passi a Spelling Bee, un inferno in cui ti danno sette lettere impossibili da combinare e tu ci devi cavare decine di parole, e come non bastasse la perdita di tempo sulla pagina del Times c’è pure il forum di indignate perché se tra le lettere del giorno ci sono la c e la l e la i e la t ti dicono però che «clit» non è parola ammessa (sarà transfobica?).

(L’esempio non è inventato, è successo due volte nella stessa settimana, forse lo fanno apposta per farsi insultare e aumentare il traffico).

A quel punto paghi 25 dollari perché il NYT ti lasci giocare a Spelling Bee abbastanza a lungo da non accontentarti della pagella Amazing ma conseguire quella Genius (sono meno della metà, i 25 dollari annuali, di quelli che pago per leggere i loro editoriali, ed è un investimento che mi fa sentire assai più intelligente).

E a quel punto capisci che hai delle amiche di merda. Che per due anni non ti hanno detto ma quale “Era della suscettibilità”, ma quale “Economia del sé”, il libro da scrivere se vuoi fare i soldi veri è una guida a come vincere a tutti questi giochini. Potrei intitolarla: “Non so voi, ma io a Spelling Bee sono Genius tutti i giorni, perdendoci a malapena quattro o cinque ore”.

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