Nostalgia L‘ultimo film di Mario Martone è una dichiarazione d‘amore a Napoli e alle cose che erano

In sala dal 25 maggio, racconta i rimpianti e gli interrogativi di un esule rientrato in patria dopo una lunga assenza. Il ritorno alle proprie origini però conduce a una biforcazione tra morte e vita

nostalgia

Napoli è una delle città più raccontate d’Italia. L‘istinto di rappresentarla ha colto tutti i grandi scrittori e i grandi registi che lì sono nati, come se si trattasse di un pegno, di un ”laccio“ – per citare il titolo di un celebre romanzo di Domenico Starnone, altro grande narratore partenopeo. Tiene ancorati, sospesi, come il filo di un burattinaio, e prima o poi richiama a sé.

È il caso del protagonista del nuovo film di Mario Martone, ”Nostalgia”, in sala dal 25 maggio e in concorso al festival di Cannes: dopo una lunga permanenza in Egitto, iniziata quando era ancora un ragazzo e che gli ha deformato l’accento, la fede religiosa, insomma, l’intera identità, Felice Lasco, interpretato da Piefrancesco Favino, rientra a Napoli. Non è chiaro se a spingerlo al ritorno sono state le sentimentali insistenze della moglie, che lavora in un ospedale al Cairo e sembra presagire, fiutare la necessità di questo viaggio, e nemmeno se ai tempi si trattò di un allontanamento volontario o involontario.

Comunque, il sospetto, la diffidenza, la fretta di Felice ben presto si dissolvono. Dopo essersi ricongiunto con la madre, che muore nel giro di poco tempo, Napoli inizia a esercitare il suo fascino irriducibile: il fascino irriducibile delle cose perdute, sepolte dal tempo.

È proprio come se una parte di Felice si schiudesse improvvisamente: gli anni che ha trascorso all’estero non sono mai esistiti, lui è di nuovo adolescente, con le ingenuità e i trasporti di quell’età, e gli interrogativi di allora si ricostituiscono, intatti.

La nostalgia lo avvolge, lo conduce e lo devia. Le immagini del suo passato acquistano via via maggiore urgenza, maggiore chiarezza: la madre al telaio, afflitta, un padre che non è il vero padre perennemente assente e invisibile, e soprattutto, i furiosi giri in motocicletta accanto al migliore amico Oreste, che è un fratello d’elezione, un compagno. Insieme, i due sgommano, fanno a botte, commettono piccoli furti. È il tipico quadro delle gioventù rionali, una sorta di predestinazione malvagia, per salvarsi dalla quale si scappa, come nel caso di Felice, oppure si cerca protezione dalla parte del bene, cioè nelle parrocchie, la cui fissità statica e prevedibile le riducono a macchine altrettanto soffocanti e costrittive.

Oreste mostra a Felice in cosa si sarebbe trasformato se non si fosse trasferito in Africa, se fosse rimasto avviluppato a quella esistenza e alle sue conseguenze: è diventato il capo del clan camorrista più feroce della città.

Per Oreste il passato è muto, esiste solo il presente, l’unica dimensione temporale possibile per un uomo la cui spietatezza lo conduce inevitabilmente alla solitudine, alla disperazione, all’isolamento. È una bestia senza nome, senza storia. Perciò, cosa cerca Felice in lui? Cosa cerca in quegli anni andati, che di fatto rappresentano una minaccia sventata in tempo, un prologo da cui è riuscito a mettersi in salvo? In Egitto è ricco, ha una moglie bellissima e devota, un attico che si affaccia sui grattacieli. Eppure, i giorni si accumulano e lui non se ne va, non lascia Napoli, si espone alla minaccia sempre più concreta della propria morte.

Come se il regista volesse suggerire che la nostalgia induce e conduce alla distruzione. Se non maneggiata con cura, se non trattata con prudenza, si sostituisce all’oggi e lo divora. I portoghesi hanno parlato di nostalgia del nostalgico imprimendogli il termine, ormai popolare, di saudade. Desideravano definire un concetto altrimenti indefinibile. Non è chiaro il motivo per cui l’impulso alla felicità contiene in sé anche un impulso di morte, come nel caso di Felice, e perché le due cose spesso arrivano a coincidere.

La nostalgia non è altro che questo.

Mario Martone, sublimandosi nel protagonista, probabilmente segue la stessa sorte. Le peregrinazioni di Piefrancesco Favino nel rione Sanità potrebbero essere sovrapposte alle sue, che dopo “Capri Revolution“, “Il giovane favoloso“, “Noi credevamo“, si trova a riflettere sul suo rapporto con Napoli, a sondarlo, come se rispondesse a una definitiva resa dei conti, a un inevitabile ripiegamento su di sé. Torna al principio.

Del resto è passato solo qualche mese da quando “È stata la mano di Dio“ usciva al cinema e su Netflix. Anche Paolo Sorrentino ha risposto alla stessa eco. La sua Napoli è giocosa, esaltata, carica di macchiettistica ironia. Abbondano gli scorci sul mare, i paesaggi incantevoli del golfo, piazza del Plebiscito, la Galleria Umberto I, Capri si staglia in lontananza. La Napoli di Martone, invece, è popolare, tetra, pericolosa: ogni figura che emerge dallo sfondo è un potenziale omicida, tutte le volte che Felice torna al suo appartamento sano e salvo si tira un sospiro di sollievo. I ragazzi della chiesa di don Luigi sono obesi, tatuati, le femmine portano la coda di cavallo e hanno i jeans attillati.

Un breve giro di Felice alle Catacombe, la città dei morti, la città sotto la città, esprime il significato sotteso, ricorrente del film e del messaggio di Martone: ritrovare Napoli, l‘infanzia, l‘origine non equivale, come per Sorrentino, a una pace da sempre agognata con il proprio passato. Vuol dire scomparire, accettare di negarsi e cristallizzarsi in un mondo che non esiste, il mondo del “non più”.

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