Quelle brave ragazzeLe dolenze delle attiviste di Instagram (e noi, poveri noi)

All’epoca mia ce la vedevamo tra adolescenti senza che agli adulti fregasse qualcosa. Ecco perché dovremmo ridere dei ragazzini disadattati che oggi scommettono tra di loro che si faranno la più cicciona della discoteca

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La prima volta che capii che una donna poteva essere la parte forte d’una dinamica interpersonale avevo diciott’anni, e c’entrava Ray Liotta. Era uscito “Quei bravi ragazzi”, e Luca S. era andato a vederlo coi suoi amici. Luca S. era quello che si accoppiava con la mia compagna di banco.

Impressionato dai personaggi cinematografici come possono esserlo i ragazzini, il giorno dopo venne a prenderla a scuola con quelli che, tapino, s’illudeva potessero essere i suoi nuovi modi da mafioso di provincia. Senza neanche scendere dalla Vespa, la abbrancò e le disse: io sono il tuo uomo e tu sei la mia donna. Lei rispose: guarda che noi siamo solo amici.

Ci avrei messo un bel po’ di anni a far diventare quell’illuminazione comportamento, perché avevo pur sempre avuto una madre per cui il desiderio maschile era sacro, e perché qualunque psicanalista saprebbe spiegarvi che tra capire una dinamica e uscirne passa una quantità di parcelle con cui lo psicanalista in questione si compra la casa al mare.

Gli anni che ci ho messo io a diventare un’adulta, cioè una per cui il desiderio altrui è un problema altrui, sono comunque meno di quelli che ci stanno mettendo in media le mie coetanee, impegnate come sono ad assecondare le dolenze delle attiviste ventenni. «Attivista» una volta era Rosa Parks, adesso sono quelle che vanno su Instagram a dire che, se pensi che una tizia grassa sia grassa, sei grassofobico; se preferisci scoparti una tizia magra sei grassofobico; se preferisci farti vedere in giro con una magra è perché sei grassofobico.

Scusate se ormai cito Chris Rock persino più spesso di quanto citi me stessa, ma: non è che ogni volta che non vai d’accordo con tua cognata è razzismo. Non necessariamente – quasi mai – i gusti sono fobie. È un tic del dibattito pubblico attuale, un dibattito il cui livello è: se metti i cancelletti, sei attivista. Se sei un uomo gay – cioè: uno cui piace il cazzo – e non vuoi andare a letto con un uomo trans – cioè: con una donna barbuta – sei transfobico.

Il desiderio è al tempo stesso sacralizzato e demonizzato. Ho il diritto d’essere desiderata, e se non mi desideri c’è qualcosa che non va in te. Qualcosa di politico e che ha a che fare con l’equità sociale, non qualcosa da sottoporre alla posta del cuore.

L’ultima scemenza – cioè: l’ultima cosa che è fisiologico una ventenne trovi terribile e che sarebbe compito delle adulte insegnarle a non trovare tale – è la boiler summer cup, cancelletto del quale non sarei mai venuta a conoscenza se le mie coetanee non controllassero i potenziali traumi della prole sui social con uno zelo che se i nostri genitori avessero controllato i cessi dei locali pubblici con altrettanta smaniosità ci avrebbero chiuse tutte in convento per tutelarci da noi stesse e da coetanei fisiologicamente crudeli.

La mia prima cotta, alle medie, mi fece chiedere dal migliore amico se volessi mettermi con lui. Quando acconsentii entusiasticamente, mi disse: ma io scherzavo. Oggi probabilmente lo manderebbero in riformatorio per bullismo, e le quarantenni farebbero i video su Instagram parlando della sua inaccettabile crudeltà, del dovere di TikTok di metterlo al bando dalla vita pubblica, e del mio gravissimo trauma. All’epoca ce la vedevamo tra di noi senza che agli adulti fregasse qualcosa, io aspettai che lui volesse davvero mettersi con me e, una volta ottenuto un impegnativo anello di bigiotteria, limonai il suo migliore amico, ambasciatore di crudeltà nella prima fase e cotto senza speranza nella seconda. È una storia di vendetta in cui lui diventa il cornuto e io la reginetta della scuola? Ma figuriamoci: è una storia che dice che siamo tutti, a turno, carnefici e vittime, in una vita sentimentale ordinaria.

In questa boiler eccetera che tanto indigna le pensatrici di Instagram, ragazzini disadattati scommettono tra di loro che si faranno la più cicciona della discoteca. Ci sono i video, e confermano ciò che qualunque adulto sa: che quei ragazzini sono dei disperati, con capelli terribili, accenti terribili, insdraiabilità terribili per cui la bella della scuola figurarsi se gliela dà, e cosa ti resta da fare quando al liceo ti mandano in bianco? Cercare d’appropriarti del ruolo del carnefice.

Non conosco un’adulta che non sappia che, nella polarità della forza, la debole non è mai quella di cui devi ridere, da cui devi prendere le distanze, che devi precisare esserti scopato per scommessa: il disperato sei sempre tu, che sia quello che la fischia per strada, che se la scopa per scommessa, che dice agli amici che lo fa per vincere la gara, mica perché non ha di meglio.

Eppure, invece di insegnare alle femmine come riconoscere un soggetto debole (indizio: di solito è quello che invidia tantissimo la visibilità del tuo difettoso sovrappeso, perché il suo pisello piccolo è un difetto occulto – e assai meno curabile – che lo fa vivere nel terrore di una che scoppi a ridere non appena lui si smutanda), diciamo loro che se non vogliono più uscire di casa per il terrore di essere irrise noi le capiamo e le proteggeremo chiedendo a TikTok più severità.

Giacché, prima di TikTok, a nessuna erano mai state dette o fatte sgradevolezze, arrivavamo ai cinquant’anni avendo incontrato solo dei gentiluomini, mica sono state le volgarità e le prepotenze a temprarci e a fare di noi gente che non si butta sotto il tram se qualcuno non la desidera.

“Quei bravi ragazzi” non mi è mai piaciuto, non lo dico per bastiancontrarismo a cadavere di Ray Liotta ancora caldo. Lo dico perché ho sempre trovato fastidioso che, nei flashback e al presente, da giovane e da vecchio, Liotta avesse la stessa faccia. Venticinque anni dopo, Liotta ha girato un telefilm di poliziotti corrotti, “Shades of Blue”, con Jennifer Lopez.

Credo d’averlo visto solo io, e quindi solo io notavo la cosa più evidente; ecco cosa non andava in “Quei bravi ragazzi”, ecco come invecchia Liotta, come invecchiamo tutti: sfasciandoci. Risaltava particolarmente in contrapposizione a Jennifer Lopez, il cui dna ha poco d’umano. Lopez cinquantenne è uguale a Lopez ventenne, ma non nel modo un po’ disperato di quelle rifatte per sembrare giovani: nel modo magico di una che abbia in soffitta un ritratto che invecchia.

Guardavo Ray Liotta e mi consolavo: vedi, non mi sono sfasciata solo io, che sollievo. Sono ragionevolmente certa che Jennifer Lopez, guardandolo, non l’abbia pensato mai, non avendo lei niente di cui consolarsi. C’è un’età, che è quella degli adulti, in cui del desiderio altrui te ne freghi abbastanza da sfasciarti serenamente. E c’è un posizionamento sociale, quello di chi ha dalla sua parte la forza della desiderabilità, che non ha bisogno d’infierire sulle ciccione in discoteca, o sui compagni di set dal dna più umano.

Te lo vedi, Blanco, che si mette a fare i video su TikTok con le dichiarazioni programmatiche di crudeltà verso le brutte che intende scoparsi? Certo che no: è troppo belloccio per essere così disperato. E noi, quand’è che diventiamo adulte abbastanza da riconoscere chi sia, tra il disperato esibizionista e la cicciona ignara, il soggetto fragile?

Guardavo una militante di Instagram secondo la quale la cosa più terrorizzante che possa accadere è che mettano immagini in cui sei grassa in gruppi Telegram ai quali non sei iscritta. Ma non dovrebbe essere il contrario? Cosa me ne importa di come parlate di me in mia assenza? Dovrei essere iscritta a che scopo, per dirvi «non sono grassa, è che quella foto ha una brutta angolazione»? Non possiamo avere il controllo di quel che dicono di noi, pensano di noi, desiderano di noi, è la lezione che più strenuamente il postmodernismo si rifiuta d’imparare.

La prima volta in cui ho capito d’essere adulta è stato quando a qualcuno è partita una chiamata per sbaglio e, capito che non intendeva parlare con me, ho riattaccato precipitosamente. Una volta mi sarei messa ad ascoltare cosa dicesse di me agli altri, e ci sarei rimasta malissimo. L’umanità è perlopiù debole, e per farsi forte è più facile dica «mi tocca andare a pranzo con quella cessa noiosa» che non «certo che questa Sorcioni merita proprio il Nobel per la letteratura, sono onorata di conoscerla».

Quando lo impari, quando smetti di origliare per sapere cosa dicono di te nelle case degli amici, o nei video TikTok di quelli che ti sei scopata, o sui gruppi Telegram in cui ci sono tue foto impietose, quel giorno diventi grande. E smetti d’ascoltare le adulte che ti dicono che sei traumatizzata e sofferente e questo è bullismo e vai tutelata. Adulte determinate a dirti che sei donna e pure grassa: sarai sempre e comunque la parte debole di qualunque dinamica seduttiva. Adulte che, quanto a parassitismo della buona causa del giorno, fanno parecchio più schifo del ventenne scemo che ha come massima soddisfazione dell’estate dire che t’ha sì scopata ma gli fai schifo. Quello magari cresce, ma noi? Tutta la vita a misurare il nostro valore da quanto ci abbranca il belloccio sulla Vespa fuori da scuola?

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