The agony abidesLa paziente arte materna di immedesimarsi nella sofferenza altrui

Hanno trovato la causa della morte in culla, è una grande notizia: la storia della dottoressa che ha condotto lo studio ci insegna che c’è un modo di sopravvivere alle cose che capitano senza possibilità di capirle, cioè non rassegnandosi all’idea che siano solo una fatalità

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Qualche giorno fa un’amica mi notifica la notizia del secolo, notizia mai apparsa su alcun giornale italiano, ma per fortuna l’amica è fluent e ha fatto il linguistico invece del classico. La notizia era in un tweet, e diceva che era stata trovata la causa della SIDS: per le nullipare, per i maschi che non si sono riprodotti, per quelli che non hanno letto Palahniuk, la SIDS è la Sudden Infant Death Syndrome: la morte in culla.

Chiunque abbia un figlio sa cos’è la SIDS, perché per il primo anno di vita del bambino un genitore non pensa ad altro. Controlli ogni ora se respira, deve dormire a pancia in su e alcuni bambini dormono solo a pancia in giù, e uno che non dorme mai un pensierino ce lo fa, la vocina in testa che dice «cosa vuoi che sia, solo per una volta» la ascolti, poi togli le coperte, i cuscini, i pupazzi, meglio allattarlo al seno così dopo un po’ si sveglia, deve stare al fresco, ma se poi ha freddo? Sulla vocina del diavolo ci torniamo tra poco.

I medici ti dicono questa cosa inspiegabile e raccapricciante: c’è la possibilità che tuo figlio muoia nel sonno e non saprai mai perché. Sia chiaro: la strada è lunga, quello che è stato trovato è solo un inizio, e un indizio.

La storia di questa scoperta è con ogni probabilità il più grande soggetto cinematografico che Spielberg possa pensare di mettere in scena: a capo di questa ricerca del Children’s Hospital Westmead di Sydney c’è la dottoressa Carmel Harrington. Damien, il figlio della dottoressa Harrington, 29 anni fa morì in culla.

Le dissero che era una tragedia e basta, e lei rispose, sintesi mia e dell’amica mia: «Col cazzo che è una tragedia». Si è chiusa in un laboratorio per trent’anni ad analizzare campioni di sangue di neonati morti, e ha trovato per tutti un basso valore dell’enzima butyrylcholinesterase: è un inizio, è un indizio, non è la cura, ma è l’uomo sulla Luna.

Nel sito della sua associazione, Harrington racconta che tre anni dopo la morte di Damien era andata a trovare una sua amica e la sua bambina, Amelia. Vide la bambina dormire a pancia in giù, lei non disse niente perché la vocina nella testa c’era ancora, come anche l’ipotesi che dare consigli non richiesti facessero arrabbiare l’amica.

Il giorno dopo le arrivò una telefonata: Amelia era morta nel sonno. L’indomani Harrington si licenziò – ai tempi lavorava in uno studio legale – e si chiuse in laboratorio. Se volete continuare a trascorrere questa giornata senza ritrovarvi malati di nervi, non andate a leggere le storie delle donazioni sul sito della dottoressa Harrington.

È come se tutto mi portasse a questa storia, un po’ per natura paranoide, un po’ per correlazioni spurie, un po’ perché me la vado a cercare.

Nelle ultime settimane ho pensato a Marta Russo, a Luca Varani, alla dottoressa Harrington, a Elon Musk che non dorme mai, all’asilo a L’Aquila dove è piombata una macchina in giardino uccidendo un bambino, ad “Arrival”, a “Film blu”, a Terrence Malick.

La fatalità, il caso, la mancanza di movente, come si sopravvive alle cose che capitano senza possibilità di capirle? Probabilmente dicendo: col cazzo che è una tragedia.

Abbiamo il diritto di sentire questo dolore anche nostro? Viviamo il lutto degli altri seduti in cima alla catena alimentare, e io lo so che qualunque genitore in questi giorni non pensa ad altro che alla macchina che perde il freno a mano e ammazza un bambino, perché anche io non penso ad altro, eppure non voglio saperne niente, perché mi prenderei un pezzo di lutto.

Ho provato a leggere un libro di filosofia che mi spiegasse il dolore per conto terzi, ma mi sono ritrovata a non capire la filosofia. Però c’è scritta una cosa che ho sentito, e quindi compreso: di fronte alla sofferenza degli altri ci immaginiamo la possibilità che un giorno quella sfortuna possa succedere anche a noi.

A questo punto la disgrazia diventa vaso comunicante, presentimento, comunione, incidente, democrazia. Viviamo tutti in un lutto per procura. Il libro di filosofia che stavo leggendo si apre con una citazione di T.S Eliot: «People change, and smile: but the agony abides», e questa sì che l’ho capita.

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