Il treno dei botI ragazzini che spiegano il mondo a Tremonti e la sua lezione su come si resta intelligenti

In un’epoca che per comprendere la realtà utilizza solo scorciatoie interpretative pigre, l’ex ministro mostra come si resiste all’insipienza contemporanea dei giovani saputelli incontrati in viaggio

Roberto Monaldo / LaPresse

Quand’è che gli intelligenti hanno smesso di cercare di capire il mondo? Quand’è che la risposta alla domanda del commissario Santamaria nella “Donna della domenica”, «ma lei e Massimo non vi stancate mai di essere intelligentissimi», è diventata «sì, ci siamo stancati, abbiamo deciso di prendere scorciatoie interpretative pigre»?

Ero su un treno, e seduto dietro di me c’era Tremonti, e di fianco a me c’erano due tizi contemporanei, tatuaggi e anelli d’argento, «1992» come risposta alla di lui domanda «di che anno siete», il primo governo Berlusconi era già andato a puttane e loro ancora dovevano cominciare a fare i compiti, e trent’anni dopo hanno passato il viaggio a spiegargli il mondo.

Le blockchain, le startup, l’algoritmo che ti dice l’andamento dei bitcoin, «l’ha fatto tipo un Nobel» (sarà un brevetto di Dario Fo). Lui, stupendissimo (che nostalgia della prima repubblica, ma pure della seconda), che – quando loro dicono che centomila euro li investirebbero senza pensarci in bitcoin – risponde «Ma non è meglio il materasso?».

Quando i due sono arrivati a Cambridge Analytica, a Brexit che si spiega perché hanno «bombardato di fake news gli indecisi», volevo buttarmi dal treno in corsa lasciando scritto che non l’avevo fatto perché Vronskij non mi voleva e la mia reputazione era rovinata: me ne fotto della reputazione, è proprio che non voglio vivere in un mondo che non tenta di capire il mondo, in un mondo che il mondo se lo fa spiegare dai documentari Netflix e alla terza puntata è convinto d’aver studiato e capito.

Brexit ma anche Trump ma anche Salvini, dicevano loro, spiegando (loro a Tremonti, Gesù d’amore acceso) cosa s’intendesse per «la bestia, il Facebook di Salvini» (maledetta discrezione che m’hai impedito di sporgermi per vedere che faccia stesse facendo Tremonti).

Nessuno vota cose brutte e cattive perché è brutto e cattivo, macché. È perché qualcuno l’ha truffato.

Un paio di settimane fa un amico m’ha raccontato sconvolto d’avere letto che l’avvocato di Johnny Depp aveva assoldato una società che ti distrugge la reputazione coi bot, che era per quello che sui social tutti ce l’avevano con Amber Heard. Quindi le tizie che chiosavano le improbabili dichiarazioni di Heard con «sì, e Gesù è morto di freddo» erano bot d’una società americana. Quindi il fatto che tutti quelli che conosco abbiano guardato i video del processo e ne abbiano desunto che Amber Heard è nella migliore delle ipotesi poco credibile fa di tutti i miei conoscenti dei bot.

C’è sempre un bot di mezzo, me ne accorgo quando m’infilo in qualche tamponamento a catena sui social, e entro cinque minuti arriva sempre un intelligentissimo a dire ma figuriamoci, questa ha quarantamila follower e cinque like, è chiaro che i follower sono comprati. Così cogliona da comprare i follower e non i like, direi se fossi il genere d’animale sociale che obietta alle stronzate. Cosa debba farmene di follower finti che neanche mi cuoricinano fintamente non si sa, mistero cosa me ne faccia di follower comprati se poi non vendo a qualche azienda le mie potenzialità di testimonial per le barrette dietetiche o per la Brexit.

C’è sempre un bot come copertura al fatto che ci piace tifare, oggi sono Amber e Johnny, trent’anni fa era OJ ma non avevamo i social e tifavamo al bar, e i giornali non riportavano le discussioni al bar con lo zelo con cui oggi riportano quelle nei bar virtuali (non riportavano neanche le scritte sui muri dei gabinetti pubblici, inspiegabilmente: i tweet sì e i muri dei cessi no?).

L’altro giorno ho visto Conte (il segnaposto, no il cantante) rispondere alle domande dei giornalisti, una gli ha domandato se Biden gli avesse chiesto delle armi e cos’avesse risposto lui, lo sventurato ha domandato se facesse riferimento all’Ucraina, e quella serissima ha detto che no, che si riferiva all’ennesima sparatoria in una scuola americana. Le pareva brutto dire a Conte «mi dia un audio qualunque sulla strage americana che mi vien buono in montaggio», e quindi ha ritenuto sensato chiedergli cos’avesse lui Conte consigliato a Biden circa una questione interna statunitense, ché dopo decenni che tentan di risolverla era in effetti plausibile Biden avesse pensato di chiedere un dirimente consiglio a Conte. Alla tizia serviva una risposta a tema da ritagliare, mica far la parte di quella che sapeva di cosa parlava. Che ti frega di sembrare un bot, se porti a casa il risultato.

Forse il problema degli intelligenti è di voler essere in pari col mondo. Forse dire comprano i like, hanno i bot, è la blockchain, investi in bitcoin è il modo in cui cercano di sentirsi moderni, come quando fingiamo (noi della mia età, noi peggior generazione di genitori di tutti i tempi) d’interessarci alla musica dei figli, i videogiochi dei figli, le marche dei figli, con uno zelo che sembriamo Renato Pozzetto in “Da grande”.

Non sarei mai voluta scendere da quel treno, dove ogni volta che m’arrivava la voce di Tremonti pensavo fortissimo a com’era bello quando gli adulti erano adulti, gli intelligenti erano intelligenti, e Corrado Guzzanti a teatro gli faceva riassumere la Traviata, a Tremonti, in «tutti gli anni la stessa baldracca che muore sempre di tifo».

Glielo mando su WhatsApp, ha detto uno dei 1992 di non so cosa mentre stringeva il biglietto da visita di Tremonti. Alle mie spalle, con la stessa voce con cui la baldracca moriva sempre di tifo, quello ha detto «No, quello no», e «quello» era WhatsApp, e il tono era lo stesso con cui io chiamo «quello» certi tizi che certe amiche mie si sono inspiegabilmente sposate. Non credevo di poter invidiare così qualcuno, finché non ho sentito Tremonti schifare WhatsApp: forse l’unico modo di restare intelligenti è tenere quanto più lontana possibile la contemporaneità.

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