Trentatré sono le donne uccise dall’1 gennaio al 24 aprile 2022 in Italia e trenta di queste in ambito familiare-affettivo. A oggi, nel 2022, «le vittime di omicidio volontario commesso da partner o ex partner sono solo di genere femminile», evidenzia il report della Direzione centrale di polizia criminale del 24 aprile.
Nelle ultime due settimane la tendenza viene confermata dalla cronaca, costellata di femminicidi, violenze e stalking. Il 19 aprile un uomo guida l’automobile finendo volontariamente in un fiume, consapevole che la donna – che aveva deciso di lasciarlo – non sa nuotare. Il 22 aprile un uomo perseguita l’ex compagna, la minaccia di torturare i cani e di ammazzarli davanti a lei. Nello stesso giorno una donna muore accoltellata per mano del marito a seguito di un litigio, all’uccisione erano precedute diverse segnalazioni. Il 25 a Livorno una ragazza – perseguitata da due anni dallo stesso uomo – viene accoltellata. Il 26 aprile una donna è stata uccisa a coltellate dal compagno.
La violenza sulle donne ha tante sfaccettature, come mostra H24, una collezione di 24 cortometraggi di 5 minuti ciascuno realizzata nel 2021 e diretta da Nathalie Masduraud e Valérie Urréa. Dalla violenza domestica, che si svolge a porte chiuse ed è spesso invisibile ai più, allo stupro. Dalle avances respinte ma che non fanno demordere chi le fa, alle molestie sugli autobus. Dai commenti inopportuni alle carezze non richieste. Dallo stalking al femminicidio. Si tratta di agghiaccianti storie già sentite, ma che continuano a proporsi quotidianamente. E che rischiano di non fare quasi più rumore.
Secondo i dati Istat nel 2019 in Italia ci sono stati 111 femminicidi, l’anno seguente 116. Nel 2020 il 92,2% delle donne ha perso la vita per mano di qualcuno che conosceva, in oltre la metà dei casi la persona in questione era il partner. Secondo l’OMS la violenza contro le donne è un «problema di salute di proporzioni globali enormi». In “L’atlante delle donne” l’esperta di politica globale Joni Seager riporta che dal 2010 al 2020 il 17% delle donne in Italia ha subito violenza domestica almeno una volta. La percentuale – stando ai dati Istat del 2014 riportati dalla Seager – sale al 21% se si parla di violenza sessuale.
L’obiettivo 5 dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite dichiara la necessità di «eliminare ogni forma di violenza nei confronti di donne e bambine, sia nella sfera privata che in quella pubblica». Il Dipartimento per le Pari opportunità intende fornire risposte «concrete, individuando strutture, interventi e risorse adeguate a contrastare il fenomeno della violenza di genere», si legge nel “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023”.
Non bastano però la Giornata internazionale della donna l’8 marzo, quella per l’eliminazione della violenza contro le donne il 25 novembre o ancora quella in ricordo delle vittime di aggressioni sessuali il 27 aprile per smuovere le coscienze. È necessaria una trasformazione socio-culturale profonda volta all’eliminazione dei pregiudizi e dei ruoli stereotipati. E questa svolta dovrebbe riguardare la tutela – anche legale – delle donne che denunciano situazioni di violenza o stalking.
Il 7 aprile 2022 l’Italia è stata nuovamente condannata, la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Landi contro Italia ha rilevato l’inadeguatezza dello Stato nel tutelare le donne che denunciano la violenza domestica e i loro figli. A perdere la vita per mano del padre in questo caso era stato un bambino.
E nell’attesa che il cambiamento socio-culturale avvenga, ci sono progetti e strumenti che permettono alle donne di autotutelarsi. Donnexstrada è «nato a marzo 2021 in seguito al femminicidio di Sarah Everard» spiega a Linkiesta Claudia Malerbi, membro del collettivo. «È partito tutto dalla psicologa Laura De Dilectis, tramite una call to action rivolta a donne interessate ad apportare un cambiamento». Per far fronte alla paura che molte provano a stare per strada da sole, Donnexstrada ha pensato di agire sfruttando i social che, secondo Claudia Malerbi «hanno un valore. Sono uno strumento con pro e contro, noi ci abbiamo visto molti vantaggi e, tramite dirette Instagram, garantiamo l’accompagnamento di coloro che si sentono insicure».
Solitamente preferiscono un preavviso, così da poter sapere la via in cui la persona si trova se fosse necessario intervenire, se le ragazze sono minorenni le accompagnano con una videochiamata privata, «ci è anche capitato di assistere in diretta persone che in quel momento erano seguite», afferma.
L’assistenza in strada non è l’unico strumento messo in atto dal collettivo. È a disposizione un servizio di supporto psicologico con specialisti a un prezzo calmierato. Inoltre, si sta diffondendo l’iniziativa “Punto Viola”. Si tratta di formare all’interno di bar, ristoranti, centri estetici, locali notturni, ma anche nel trasporto pubblico, persone che siano sensibilizzate su questo tema e che – se necessario – possano fornire sostegno. «Per ora stiamo iniziando da Milano, Torino, Roma e Bologna», ma l’intenzione è quella di ampliare questo servizio ad altre città.
Spray al peperoncino e corsi di autodifesa vengono in mente quando si pensa a come ci si potrebbe proteggere. Esistono però alternative, che non sono armi, si tratta dei dispositivi antiviolenza. Recentemente è stato sviluppato WinLet, «un piccolo dispositivo fornito di un panic button che, se premuto tre volte, fa partire una sirena che supera i 110 decibel», spiega PierCarlo Montali, uno dei tre fondatori. «L’obiettivo è quello di dare fastidio all’aggressore e attirare l’attenzione dei passanti. Inoltre provvede a mandare sms geolocalizzati ai contatti selezionati in precedenza. Infine, la centrale operativa del gruppo Civis chiama la ragazza che ha fatto partire la segnalazione, se non risponde entro 30 secondi, manda direttamente i carabinieri sul luogo». È provvisto anche di un allarme silenzioso, utile per le situazioni di violenza domestica.
Ma questi (seppur utili) strumenti sono metodi collaterali, creati perché è più immediato tutelare le donne, rispetto a distruggere secoli di stereotipi e atteggiamenti lesivi che, perpetuati, sono diventati spesso normalità. «Ci vorrebbe una rivoluzione nell’educazione, ma sarebbero necessari tantissimi anni, soprattutto perché le persone da educare sarebbero in particolare generazioni che ora non vanno più a scuola», afferma Claudia Malerbi.