Domenica 16 luglio 1972.
No, dài, davvero? Ma chi giocherebbe mai di domenica? Nello specifico: un russo ateo contro un americano ebreo accompagnato in Islanda da un sacerdote cattolico che si dichiara però adepto di una setta tipo testimoni di Geova. E che comunque, tecnicamente, non è nemmeno circonciso.
Sembrerebbe una barzelletta, una cosa da far venire il mal di testa.
E invece, domenica 16 luglio 1972 è il giorno della terza partita del campionato mondiale.
Potrebbe filare tutto liscio. Suonano pure le campane. È domenica!
I due arrivano, si siedono, giocano: uno vince, l’altro perde. Si stringono la mano, grazie a tutti e a domani. Potrebbe andare così.
Ma sarebbe un’altra storia.
Sì, perché ancora prima che tutto inizi, c’è già un piccolissimo problema da risolvere.
Il pubblico. Che ne facciamo di mille spettatori che hanno già pagato il biglietto per avere un posto a sedere nel palazzetto e assistere alla partita? Li dirottiamo a vedere un altro evento? In tutta l’Islanda non c’è nessun altro evento.
E dei giornalisti, dei commentatori, di tutta la sala stampa, delle televisioni, dei fotoreporter? Che ne facciamo finché quei due non escono dallo sgabuzzino?
E dei VIP? Che ne facciamo dei VIP? E dei politici? Li mandiamo a braccetto a fare un giro dei vulcani islandesi? Una bella tavolata di carne salata innaffiata da birra?
C’è una sola soluzione: la tecnologia. Collegare un televisore alla telecamera a circuito chiuso puntata sulla scacchiera e far vedere all’esterno dello sgabuzzino quel che accade là dentro.
«Si può fare?» chiedono gli organizzatori al signor Fox. E quello lo fa.
Cavi, pinze, prolunghe. Nastro isolante.
Da fargli un applauso.
Bobby arriva, vede tutto e fa il matto.
Urla: «Che cazzo è questo cavo? Che cazzo è quest’altro…». Lothar Schmid non ne può più, lo prende per il colletto della camicia – Bobby è almeno venti centimetri più alto di lui – e lo spinge sulla sedia.
«Ora basta, Fischer! Giochi e sia gentile.»
Bobby tace. Boris, impassibile, gli si siede di fronte. Mancano nove minuti alle nove. Il campionato del mondo sembra salvo. Alle nove si parte.
Ma in nove minuti può accadere di tutto.
Per una volta, però, sa Dio come e perché, non accade niente.
Alle nove inizia la partita. Boris apre coi bianchi.
E se dentro ci sono solo loro due, fuori quella partita la vedono tutti. Anche questo mi sembra straordinario. Pensate alle tecnologie video del 1972. Pensate a un televisore del 1972. Pensate a che scatolone di valvole e vetro era un televisore nel 1972.
E pensate alla qualità dell’immagine di ciò che stavano guardando gli spettatori: una partita di scacchi, giocata in penombra in uno sgabuzzino delle scope, ripresa da una telecamera a circuito chiuso diffusa da un televisore a tubo catodico e schermo bombato. Una lentissima partita di scacchi. Tutta sgranata e in bianco e nero. Forse le immagini dell’allunaggio del 1969 erano più nitide. E il mondo sospende tutto ciò che ha da fare per guardare questa cosa.
La gente nei bar scommette sulle mosse. La gente nei parchi osserva, decripta e rigioca la partita su tabelloni grandi un metro quadrato.
Bruno Pizzul, alla radio però, ci mette la stessa enfasi di Italia-Brasile del 1994.
Ma: ha senso?
Ha senso spaccarsi gli occhi così?
E perché sono tutti lì, con gli occhi dentro quella tv?
Cos’ha questa partita di tanto affascinante?
Boris ha mosso. Tocca a Bobby coi neri, l’abbiamo già detto. Lui quando gioca coi neri è metodico, ripetitivo, tradizionale, abitudinario. Meno creativo rispetto a quando ha i bianchi.
Assurdo da dire di lui, ma quando gioca con i neri… è prudente.
Muove.
«Oh cazzo! Questa è roba seria!»
È Lombardy, non crede ai propri occhi. E sì, è un prete e sì, ha detto “Oh cazzo!”.
In risposta all’apertura di Boris, Bobby fa una mossa suicida. Una mossa infinitamente rischiosa che giochi solo se ti senti infinitamente superiore all’avversario. Una mossa anche esteticamente brutta, scomoda. È come se nella finale dei Mondiali di calcio, al fischio dell’arbitro, tu tirassi in porta dal dischetto del centrocampo. È assurdo! Ed è brutto.
Bobby Fischer gioca la Benoni.
I commentatori in sala restano senza fiato. La Benoni! La Benoni non è un azzardo: è uno shock.
Su che terreno vuole portare Bobby questa partita? Vuoleportarla nella sua testa. Perché la Benoni, in gergo, è chiamata così: “il figlio del dolore”. Quando giochi la Benoni – e nessuno che abbia un po’ di buon senso la gioca mai a questi livelli – stai dicendo: “Sarà una carneficina, amico mio. Chi di noi due morirà lo farà tra atroci sofferenze”. Boris è spiazzato. Muove. Ma fa una mossa interlocutoria; ha i bianchi, dovrebbe attaccare, ma fa una mossa timida. Cauta. Non può credere che Bobby insisterà con la Benoni. È troppo rischioso, anche per lui.
E Bobby prosegue.
La Benoni. Allarga gli scacchi, moltiplica le offensive. Non si concentra su un unico fuoco, è come se incenerisse ogni angolo periferico della scacchiera. Fa della guerriglia, non una guerra. E all’undicesima mossa: cavallo in H5.
Che si può dire anche così: CH5. Oppure così: stai scom- paginando il tuo schieramento di pedoni sottraendone uno alla difesa di Re. Fosse calcio sarebbe rispondere con “Pelé” alla domanda: “Scusa, chi è il tuo portiere?”.
Senza alzare gli occhi si lascia sfuggire un sussurro mefistofelico: «Boris… sto venendo a prenderti!».
È Achille sulle rive dello Scamandro.
Da “La Mossa del Matto”, di Alessandro Barbaglia, (Mondadori), 18 euro, 192 pagine