DoppiaggeseSplendore e miseria delle traduzioni che hanno cambiato la storia

Nel passaggio da una lingua all’altra si perdono sfumature, cambiano i riferimenti e talvolta si è costretti a fare modifiche irreparabili. Con conseguenze imprevedibili. Le racconta Anna Aslayan in “I funamboli della parola” (Bollati Boringhieri)

di Jessica Arends, da Unsplash

Il 26 luglio del 1945 l’Office of War Information di Washington diffuse la Dichiarazione di Potsdam, un ultimatum che intimava la resa al Giappone.

Venutone a conoscenza il mattino successivo, il ministro degli Esteri giapponese Shigenori Togo non la interpretò come un ordine di resa incondizionata, proponendo invece di avviare trattative con gli Alleati e sollecitando il governo a gestire la questione «con la massima circospezione sia a livello interno che internazionale».

Un membro del gabinetto espresse il suo dissenso e suggerì di rispondere agli Alleati che si trattava di una richiesta assurda, ma il primo ministro Kantaro Suzuki appoggiò Togo, e si decise che la stampa avrebbe pubblicato il testo della dichiarazione senza commenti. I giornali tuttavia non seppero trattenersi e presentarono l’ultimatum, per citare un titolo, come una «Roba da ridere».

Si giunse a un nuovo compromesso: il primo ministro avrebbe letto un comunicato che non dava peso all’ultimatum, senza tuttavia respingerne le condizioni. Nel corso della conferenza stampa Suzuki affermò che, a giudizio del governo, il documento possedeva scarsa rilevanza, aggiungendo: «Dobbiamo mokusatsu la dichiarazione».

In giapponese mokusatsu significa letteralmente «uccidere con il silenzio», anche se Suzuki in seguito disse al figlio che con questa parola voleva esprimere un «no comment», locuzione priva di un equivalente giapponese. Gli americani tradussero il termine con «ignoreremo» e «tratteremo con silenzioso disprezzo».

Il 30 luglio il «New York Times» titolava in prima pagina: «Il Giappone respinge ufficialmente l’ultimatum di resa degli Alleati». Il destino di Hiroshima era segnato. Gli storici hanno senz’altro ragione a osservare che la tragedia non fu dovuta solamente alle difficoltà di traduzione. Tuttavia i dibattiti sul ruolo dei traduttori, vecchi quanto la loro professione, ruotano sempre intorno alla stessa domanda: quale tipo di mediazione comporta la traduzione?

Nel nostro mondo multilingue l’equilibrio (nel migliore dei casi instabile) della storia dipende dall’interpretazione che si attribuisce alle parole.

Alcuni traduttori si considerano un puro canale: idealmente, un filtro invisibile attraverso il quale fluisce il significato. Altri sostengono invece che la questione è di gran lunga più complicata: in fin dei conti i traduttori impiegano le proprie parole, i propri accenti e le proprie inflessioni, condizionando inevitabilmente gli eventi.

I traduttori possono prendersi delle libertà? O devono farlo? La natura del mestiere, come stiamo per vedere, è tale per cui le ingerenze sono difficilmente evitabili.

Quando, nel 2018, Donald Trump definì alcune nazioni «shithole countries», un po’ in tutto il mondo i traduttori si presero la briga di attenuare questa definizione. La versione più gentile, adottata a Taiwan, fu «nazioni dove gli uccelli non depongono le uova», il Giappone optò per «nazioni sporche come gabinetti», la Germania per «nazioni-discarica».

Nel medesimo anno i media internazionali interpretarono la limpeza promessa da Jair Bolsonaro nel corso della campagna presidenziale in Brasile come un «repulisti» nei confronti di criminali e corrotti. Che cosa intendeva davvero dire Bolsonaro? Stava in realtà minacciando qualcosa di ben più grave, ossia di fare piazza pulita dei suoi avversari?

Per quanto ampia possa essere la gamma di significati che si cela nel messaggio originale, le scelte linguistiche di un traduttore possono avere conseguenze enormi. Quando lo slogan che, tradotto alla lettera, suona «Morte all’America» – uno slogan ampiamente utilizzato in Iran dalla rivoluzione del 1979 in poi – viene reso con «Abbasso l’America», le probabilità di dialogo aumentano.

Il mio lavoro di traduttrice e interprete free-lance non ha mai, a quanto mi è dato sapere, alterato l’equilibrio della storia. Ma mi ha fornito molto materiale di riflessione, consentendomi di cogliere con maggiore chiarezza che il traduttore è una figura circondata da eventi aleatori nei quali non può fare a meno di intromettersi.

È questa l’immagine che vorrei tratteggiare in queste pagine. La comunicazione umana, anche fra persone che parlano la stessa lingua, comporta invariabilmente che tutti comprendano e siano compresi in misura molto inferiore a ciò che sperano.

Quando ero un’interprete in erba un processo me lo rivelò con particolare chiarezza. Per tutta l’udienza, che aveva per oggetto la custodia del figlio, la donna a cui facevo da interprete rimase seduta con la testa fra le mani. All’inizio non mi resi conto, e lei si rifiutava di dirmelo quando glielo chiedevo, quanto poco le importassero le formule legali (che traducevo col massimo impegno, sfoggiando il mio legalese di fresca acquisizione), poiché tutto ciò che le premeva sapere era se avrebbe potuto riabbracciare il figlio. Quando il giudice arrivò a «La Corte delibera di accogliere il ricorso», non reagì alla buona notizia.

Poco dopo, mentre il suo avvocato le spiegava il verdetto con parole semplici che io tradussi diligentemente, la donna sollevo lo sguardo e annuì. Questa volta aveva compreso tutto. Mi sentii improvvisamente liberata dal peso opprimente dei dizionari.

Chiunque abbia provato almeno una volta a tradurre sviluppa uno speciale interesse per le discrepanze esistenti fra una lingua e l’altra: discrepanze generate da differenze concettuali e da assunti culturali. E in questi casi spesso misconosciuti che i traduttori devono assumere delle decisioni, spesso basandosi unicamente sulla propria capacità di discernimento. Che altro si dovrebbe fare quando si è la persona che ha in mano tutte le carte?

Quel che caratterizza questo processo decisionale e la convinzione che l’esperienza umana sia traducibile. All’inizio del suo famoso saggio del 1937 su Miseria e splendore della traduzione, il filosofo spagnolo Jose Ortega y Gasset dichiara che la traduzione e un’impresa chimerica, e sostiene che gli esseri umani pensano per concetti anziché per mezzo delle parole, e che nessun dizionario e in grado di fornire termini equivalenti fra due lingue qualsiasi, poiché in nessun caso due vocaboli ufficialmente considerati traducenti l’uno dell’altro indicano davvero la stessa cosa.

Altri hanno avanzato una tesi analoga parlando di lingua della mente, o mentalese, inteso come un codice non-verbale elaborato dal cervello umano. Stando a questa tesi, per poter tradurre in modo preciso occorre possedere un dizionario speciale che per ogni parola fornisca un elenco completo di sinonimi, nonché esempi d’uso in ogni contesto immaginabile. A questo punto, ammesso che l’interlocutore sia dotato di un analogo strumento di consultazione che contiene non solo le parole ma anche i relativi contesti, sarebbe possibile stabilire delle corrispondenze esatte fra i due dizionari.

Se non si dispone di strumenti simili la traduzione perfetta è un’illusione (e, seguendo questa logica, lo sarebbero anche scrivere, leggere, parlare e di fatto qualunque altra attività intellettuale).

Alla luce di ciò la traduzione potrebbe sembrare un problema insolubile; eppure vale la pena affrontarlo, soprattutto perché l’esperienza dimostra che, di fatto, la comunicazione interlinguistica è possibile. I modi con cui essa si può realizzare sono infiniti, sebbene la traduzione parola per parola sia di rado fra questi.

In un mondo ideale le cose funzionerebbero diversamente: ogni vocabolo avrebbe il suo equivalente perfetto, ogni frase sarebbe scritta in modo chiaro e ogni messaggio sarebbe enunciato con cura. Ma il nostro mondo non funziona così – per fortuna.

Ciò che importa davvero al traduttore non sono le parole ma il senso. Per preservarlo si possono normalizzare gli aspetti dell’originale che non ci sono familiari, in modo da renderne più accessibile il significato, oppure si possono lasciare un po’ di note forestiere, facendo sì che il senso arrivi al lettore senza subire mediazioni.

Sono due approcci che si escludono a vicenda? Una possibile risposta è data dal modo in cui definiamo l’attività del tradurre.

A seconda delle motivazioni di coloro che la svolgono, la si può considerare un’arte, un mestiere artigianale, un passatempo, un hobby, una necessità. La traduzione può essere creativa quanto si vuole, ma è pur sempre un’attività derivata, che presuppone l’esistenza di un originale. Può essere una vocazione, un mestiere, la propria occupazione normale, ma anche un secondo lavoro, qualcosa a cui dedicarsi quando si sente la necessità di staccare dal primo, oppure quando si ha il disperato bisogno di fare esperienze nuove, o quando si è disperati e basta.

I traduttori spesso hanno vestito anche i panni dei poeti, degli schiavi, dei medici, degli apprendisti, degli avvocati, delle spie, dei predica tori, dei diplomatici, dei soldati, e così via. «Diciamo così: quello del traduttore è un mestiere, come lo sono quelli del falegname, del panettiere o del muratore», suggerisce lo scrittore e traduttore Eliot Weinberger. «È un mestiere in cui si può cimentare qualunque dilettante, ma i professionisti lo svolgono meglio».

Dunque la traduzione è un lavoro come qualunque altro, governato dal gioco della domanda e dell’offerta. Un lavoro che appassiona oppure che si fa semplicemente per vivere, prendendo quello che viene: un caso di divorzio, un romanzo sperimentale, il manuale di istruzioni di un’automobile, un dépliant turistico. Mentre il traduttore attende al suo compito, le sue azioni possono cambiare il mondo intorno a lui più di quanto si aspetti.

Questo libro parlerà di traduttori che svolgono attività che, pur non rientrando fra le loro mansioni ufficiali, influenzano il modo in cui affrontano il loro lavoro. Parlerà della qualità delle traduzioni, un concetto sfuggente, ed esaminerà i rapporti che intercorrono fra i traduttori e chi ha bisogno delle loro prestazioni, rapporti particolarmente complessi perché inevitabilmente caratterizzati da una comprensione reciproca imperfetta.

Infine, fornirà qualche anticipazione sul futuro, un futuro (pare non troppo lontano) in cui, per competere con le macchine, i traduttori potrebbero essere costretti a diventare ancora più versatili di quanto già non siano.

da “I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia”, di Anna Aslanyan, Bollati Boringhieri, 2021, pagine 288, euro 23