Nel presentare in una conferenza stampa gli esiti di una imponente operazione antidroga, che ha portato al sequestro di 4,3 tonnellate di cocaina e all’arresto di 38 sospettati, il Procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo ha detto che se passasse il referendum «questi arresti non si potrebbero più fare» e «gli arrestati dovrebbero essere messi in libertà con tante scuse del popolo italiano: questa è la norma che si intende abrogare».
Il riferimento è al referendum sui limiti alla carcerazione preventiva, che, attraverso un ritaglio parziale dell’articolo 274, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale, continua a consentire che le misure cautelari siano disposte «quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata», ma esclude che possano essere disposte, come oggi avviene, misure cautelari per il rischio di reiterazione di «reati della stessa specie di quello per cui si procede», quando si tratti «di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni».
Non occorre essere un Procuratore della Repubblica per capire che per l’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, DPR 309/90), anche se prevalessero i sì a questo referendum, continuerebbero a potersi disporre misure cautelari, trattandosi per l’appunto di un delitto di criminalità organizzata.
Occorre invece essere un Procuratore della Repubblica per potere sostenere il contrario, senza alcuna confutazione e censura, senza alcuna contestazione di merito o di opportunità, senza che chiami un Ministro o un sottosegretario o qualche umile cronista giudiziario, a chiedere conto dello spettacolo, con annesso sfondone, senza alcun dibattito, che sarebbe normale in un Paese normale, circa l’abnormità del caso di un magistrato importante, che in una conferenza stampa omnibus approfitta di una operazione di contrasto al narcotraffico per spacciare un po’ di droga anti-referendaria, travisando colposamente o falsificando dolosamente il contenuto di una proposta dal contenuto peraltro assai poco sibillino.
È del tutto inutile chiedersi se sia più o meno grave che un Procuratore della Repubblica incorra in un errore così marchiano per leggerezza o negligenza, leggendo sbrigativamente un quesito referendario, o scelga deliberatamente di trarre in inganno chi lo ascolta, per perseguire un fine superiore – quello della giustizia, della lotta alla criminalità, di difesa della dignità della magistratura… – che giustifica il mezzo, per definizione inferiore, dell’impostura.
È del tutto inutile perché, in un caso o nell’altro, ci si fermerebbe alla dimensione soggettiva e personale di una vicenda, che invece rileva nel suo effetto e nelle sue conseguenze pubbliche e in quello che è successo dopo la rumorosa uscita del procuratore De Nicolo. Cioè rileva in questo: che non è successo niente.
Alcuni giornali schierati per il No, come il Fatto Quotidiano e la Notizia, si sono dati da fare per diffondere la “verità parallela” rivelata dal Procuratore, senza minimamente metterla in discussione, né verificarne la fondatezza. Gli altri giornali, tranne due o tre casi di più o meno burocratica registrazione delle proteste degli esponenti del comitato referendario, hanno semplicemente fatto finta di niente. Soprattutto i giornali per così dire seri, i giornali cosiddetti indipendenti.
Ed è, questa, una straordinaria metafora della discussione sui temi della giustizia: il far finta di niente sull’essenziale e l’accapigliarsi furiosamente sul contingente, in un gioco di specchi della cattiva coscienza; l’accettare fatalisticamente la deriva incivile della giurisdizione e della legislazione penale e l’esorbitanza del potere togato e il cavillare sospettosamente sulle cattive intenzioni e relazioni di chiunque provi a mettere mano alla ri-costituzionalizzazione del sistema penale, di cui sono – non a caso – sacre e intoccabili innanzitutto le storture e gli orrori, a partire dall’uso ricattatorio delle misure cautelari e dall’idea della galera come presidio di igienizzazione sociale o come discarica dei nemici del popolo.
Anche questi referendum, dirottati sul binario morto dell’astensionismo indotto e pure raccomandato, alla Littizzetto, come marameo antipolitico, hanno confermato che in Italia non è possibile, nel senso che non è proprio ammissibile, parlare di giustizia in termini di diritto, proprio perché non è possibile farlo in termini di verità. Il divorzio tra la giustizia e il diritto, cioè tra il funzionamento del sistema penale e i principi dello stato di diritto, è reso possibile dal sacrificio della verità e dalla indistinzione, giornalisticamente assistita e coltivata, tra la realtà dello scandalo quotidiano che si consuma nelle aule di giustizia e nelle galere, e la rappresentazione di ogni contesa come una perenne battaglia tra i figli della luce e quelli delle tenebre.
Ci si mette niente, allora, a diventare complici dei corrotti, amici dei mafiosi e anche volontari o involontari fiancheggiatori dei narcotrafficanti, nella realtà rovesciata nel suo contrario e così ufficialmente decretata, senza alcuna smentita, dalle parole di un Procuratore.