Secondo Vitisphere, in Bordeaux, si sta pensando di finanziare i viticoltori disposti a espirare i propri vigneti. La ragione: c’è troppo vino. Il problema si potrebbe porre tal quale in Italia, che anche l’anno scorso ha superato la Francia per ettolitri prodotti. Ma non si deve pensare che il problema siano le bottiglie di pregio. Quelle hanno il loro mercato e non sono certo il fulcro del problema delle abbondanti quantità. Angelo Peretti su Internet Gourmet appoggia l’idea di estirpare le vigne anche da noi, dedicando quei terreni a colture oggi ritenute maggiormente necessarie come il grano. Ma siamo sicuri che ridurre la quantità del vino e far fronte a una minaccia di carestia globale sia la vera soluzione?
Il problema dei nuovi vigneti
Il problema delle eccessive quantità di vino è sempre esistito in Italia, in particolare nelle regioni del Sud, da sempre vocato al commercio del vino sfuso o da taglio. In tempi di grandi vendemmie, si arrivava a ricorrere anche alla distillazione di crisi, ossia la trasformazione del vino prodotto in eccedenza in alcol. Lo abbiamo sperimentato durante il primo lockdown, quando le cantine erano piene e mancavano i disinfettanti.
Oggi, per limitare le quantità e il numero degli impianti, è in vigore il sistema delle autorizzazioni. Questo piano prevede un incremento della superficie vitata dell’1 per cento all’anno. Entrato in vigore nel 2016, l’accordo è il risultato di uno scontro tra Commissione Europea e Stati produttori, iniziato nel 2012.
Da quell’anno i diritti di impianto trasferibili, in vigore dagli anni Settanta del XX secolo, dono diventati autorizzazioni non trasferibili. Si è tornato a parlare del sistema delle autorizzazioni durante il negoziato istituzionale sulla Pac del 2021, da cui è emersa la volontà di blindare l’attuale sistema di controllo del potenziale produttivo vitivinicolo fino al 2045.
Se Francia e Spagna, impegnate a ridurre le rese, hanno accolto la decisione con favore, l’Italia vive un momento di incertezza, dato che da noi la voglia di impiantare non si placa e le superfici adibite a vigneto aumentano ancora. Ma è vero anche che i nuovi campi sono dedicati per lo più alla valorizzazione di varietà autoctone, in cui si cerca di seguire – dove possibile e adatto – il criterio della densità d’impianto.
La strategia contro la quantità
La densità d’impianto garantisce due cose. Data la fitta presenza di vigne, ognuna produce meno grappoli. In più, la pianta è spinta a sviluppare le proprie radici verso il basso, in cerca di acqua nel sottosuolo, salvando la sua produzione dall’irrigazione di soccorso e producendo uve dal corredo aromatico più raffinato.
Ma se l’uva da vino è il sorvegliato speciale della viticoltura italiana, i vini da tavola e gli Igp sono quelli che riscuotono i prezzi migliori sul mercato all’ingrosso. Questo fattore incentiva gli agricoltori a favorire coltivazioni con forme di allevamento e densità che puntano alla quantità invece che alla qualità.
Alla ricerca della dignità economica
Del resto l’agricoltura è una delle professioni meno gratificanti a livello economico. Lo testimonia il massiccio abbandono delle campagne, fatto reale che si scontra con il romantico storytelling contemporaneo del contadino felice.
La verità è che fino a due anni fa coltivare grano era poco redditizio. Il frumento tenero è passato dai 194,45 euro alla tonnellata del 2019 ai 392,88 euro/t del 2022. Quello duro, è schizzato da 218,19 euro/t (2019) a 517,02 euro/t (2022; dati: Ismea). E anche se nel breve termine il prezzo attuale fa gola a molti, i tempi dell’agricoltura non stanno dietro alle oscillazioni economiche, viziate anche dai meccanismi di trading internazionali.
Inoltre, la stessa Comunità Europea ha pagato i contadini per non coltivare quei campi. Come spiega Riccardo Velasco, Direttore del Dipartimento viticoltura ed enologia del Crea, il più importante ente di ricerca italiano sull’agroalimentare, «si richiedeva che le persone incrociassero le braccia per non fare. Si doveva fare i conti gli eccessi di grano, a causa dei quali l’Ue richiedeva di diminuire la produzione di cereali. Ma il non fare è sempre una soluzione miope».
Quando si impianta qualcosa, lo si fa sperando di non perdere il treno. Ne è un esempio l’integrazione comunitaria prevista per chi negli ultimi anni ha scelto di impiantare mandorleti. Numerosi imprenditori hanno seguito questa strada, estirpando uliveti e altre colture. Ma prima di diventare fruttifero, un mandorleto ha bisogno di cure e di almeno cinque anni prima di entrare in produzione. È naturale, dunque, che chi ha a disposizione della terra scelga il prodotto più redditizio, con buona pace delle classifiche e dell’allarme sulla quantità di vino presente sul mercato.
Obiettivo: recuperare e innovare
«Una vigna esaurisce il suo ciclo economico tra i 20 e i 25 anni. Prima di toccare ciò che produce, è bene ricordarsi dei terreni incolti». Quindi, più che a riconvertire, si dovrebbe pensare a recuperare. Infatti, dal centro Italia in giù il nostro Paese è costellato di appezzamenti abbandonati.
Per convincere gli agricoltori a tornare a impiantare grano, bisognerebbe rivederne il sistema di retribuzione. Per salvarli dalle oscillazioni economiche, lo strumento principe resta l’accordo di filiera, oggi utilizzato da numerose aziende trasformatrici di grano. Puntando a lavorare con grano di alta qualità e buon profilo proteico, si assicura ai coltivatori un prezzo che valga l’attenzione agronomica al campo.
È bene ricordare che i campi italiani non sono popolati solo da vigne, ma anche da uliveti intensivi – che aumentano il rischio di prezzi troppo bassi all’origine – e pannelli fotovoltaici – più redditizi e meno impegnativi rispetto a un campo di grano.
Infine, prima di pensare a scelte drastiche come estirpare i vigneti, si potrebbe guardare alle soluzioni proposte dalla tecnologia. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’agricoltura è la prima voce d’impiego di una risorsa molto preziosa, che oggi scarseggia un po’ ovunque: l’acqua. Inoltre, le coltivazioni tradizionali sono tra le maggiori cause di impoverimento e consunzione del suolo. si potrebbero destinare quei favolosi terreni abbandonati ad impianti di colture idroponiche o impianti di vertical farmin altamente ingegnerizzati. Non produrranno grano, ma potranno contribuire con altri alimenti più semplici all’alimentazione umana.
Certo, il Comitato di Bordeaux parla di moltissimi ettari da estirpare, per cui sarebbero necessari ingenti fondi per risarcire i vigneron. Questo denaro andrebbe sottratto a promozione e attività direttamente collegate alla vendita, con conseguenze non sempre rosee sul segmento finale della filiera. Ma in Italia, nonostante l’ingente produzione, i problemi sembrano altri e forse passano da una necessaria implementazione delle conoscenze agronomiche, connesse a una maggiore attenzione e tutela del mercato.
«Si può ragionare su una strategia nazionale che valorizzi la produzione di vino di qualità. Ma bisogna ricordare che negli ultimi dieci anni c’è stata una grande evoluzione del settore. Il Sud esporta più bottiglie che cisterne, anche se si deve puntare ad aumentarne il valore. Ed è necessario tenere a mente che non tutti i terreni sono uguali.
L’Italia è lunga 2000 km e ogni regione è chiamata a perseguire l’equilibrio tra suolo, pianta e ambiente, coniugando una tradizione intelligente con l’ascolto dell’innovazione. Obiettivo: migliorare la qualità del prodotto e salvaguardare una produzione sostenibile e qualitativamente elevata. In più, va detto che non si può coltivare grano in un terreno sassoso: quello resta il luogo ideale dove far prosperare una vigna».