Se crediamo che quello che succede al Pianeta non abbia conseguenze dirette sul nostro corpo, ci sbagliamo di grosso. Se crediamo che quello che succede al Pianeta abbia conseguenze solo per quelle popolazioni che vivono nei Paesi in via di sviluppo, continuiamo a sbagliarci di grosso. La correlazione tra salute dell’ambiente e salute umana è qualcosa che investe tutti, e in tutte le parti del globo. Talvolta, anche in modi inaspettati.
Sotto questo aspetto, c’è un dato che crea particolare vivacità nel dibattito scientifico internazionale: 2 miliardi di adulti e 40 milioni di bambini sotto i cinque anni, nel mondo, sono obesi o in sovrappeso. Questo significa che la quantità di persone con problemi di peso è triplicata rispetto al 1975. Sempre più studi starebbero avanzando l’ipotesi che tra le cause di questo aumento possano anche esserci fattori quali l’inquinamento e la presenza nell’ambiente di certe sostanze chimiche. Una premessa è doverosa: al momento non esiste un’evidenza clinica inconfutabile, ma opinioni sempre più diffuse nella comunità scientifica vanno in questa direzione.
La prima volta che degli studiosi hanno apertamente parlato di correlazione tra inquinamento e obesità risale al 2006, quando Felix Grun e Bruce Blumberg, due biologi dello sviluppo presso l’Università della California, pubblicarono uno studio sulle sostanze chimiche artificiali note per contribuire all’obesità. Queste particelle, che i ricercatori definirono “obesogeni”, sono composti estranei all’organismo che compromettono l’equilibrio e lo sviluppo del metabolismo dei lipidi, spesso interrompendo la funzione endocrina.
Per semplificare, è come se questi obesogeni dessero un enorme boost agli effetti dell’assunzione di grassi e zuccheri: il loro effetto altera lo stoccaggio del grasso e aumenta le dimensioni e il numero delle cellule adipose, modificando così l’appetito e interferendo con il consumo di calorie. Un’analisi del 2020 ha raccolto i risultati di quindici studi, rilevando (in dodici di questi) un legame significativo tra i livelli di queste sostanze riscontrati nell’organismo e l’obesità.
Oltre 40 scienziati si sono adoperati per raccogliere prove e razionalizzarle in tre ricerche pubblicate sulla rivista Biochemical Pharmacology, dove vengono citati complessivamente 1.400 studi in cui si specifica chiaramente un aspetto: queste sostanze chimiche sono ovunque. Nell’acqua, nella polvere, negli imballaggi alimentari, nei prodotti per l’igiene personale e nei detergenti per la casa, nei mobili, nell’elettronica, nella plastica, nei pesticidi, nelle vernici.
Dal 2006 ad oggi le sostanze chimiche identificate come obesogene sono più di 1.000, e molte altre sono ancora in fase di valutazione. Alcune sono ampiamente conosciute, come il glutammato monosodico (il sale di sodio), i bisfenoli (abbreviati con la sigla Bpa e largamente presenti nei prodotti plastici come le bottigliette d’acqua o gli imballaggi utilizzati nell’ortofrutta), gli organofosfati che comunemente chiamiamo pesticidi. Tuttavia, la maggior parte non è così nota o riconoscibile.
Gli ftalati, ad esempio, sono utilizzati in tutta una serie di beni di consumo non solo perché sono i plastificanti più diffusi al mondo (sono quelli che conferiscono la morbidezza), ma anche perché in forma liquida sono inodore e hanno moltissime proprietà. Nello smalto per unghie evitano che si disgreghi; nelle creme, negli shampoo o nel profumo fanno sì invece che la fragranza duri più a lungo.
Più l’aria è inquinata e più la concentrazione di queste sostanze sarà elevata. È del 2014 uno studio pubblicato su Environmental Health in cui si evidenzia come la presenza degli ftalati sia stata riscontrata in alimenti come il latte intero e la carne. Ciò si deve alla massiccia presenza di queste sostanze nel suolo, e quindi nei nutrimenti degli animali, ma anche agli imballaggi stessi dei cibi.
E se non fa bene a nessuno ingerire o entrare in contatto con queste sostanze, quelli che maggiormente andrebbero protetti dal contatto con gli obesogeni sono i bambini. In uno studio pubblicato su Biochemical Pharmacology, l’autore Vimal Karani e il vicedirettore del Green chemistry center of excellence dell’Università di York, Avtar Matharu, vogliono portare l’attenzione sulla correlazione tra gli obesogeni ambientali e la salute nella prima infanzia: un momento della vita in cui il corpo è più duttile e ricettivo. Il rischio è quello di alterare in maniera irreversibile alcune funzioni del sistema metabolico. Ma non solo: uno studio del 2021 ipotizza anche che ci possa essere un legame genetico tra esposizione alle sostanze inquinanti e obesità.
Il fondatore del Commonweal’s Healthy environment and endocrine disruptor strategies, Jerry Heindel, aggiunge un tassello avanzando la teoria secondo cui l’esposizione prolungata agli obesogeni produrrebbe effetti rilevanti sul Dna, riprogrammando i geni in modo da poter sopravvivere anche in condizioni di scarsità di cibo. Se si mangia in maniera normale ma il nostro corpo “pensa” di dover immagazzinare più energia, l’effetto è un aumento di peso.
Evitare di esporci o di esporre i nostri figli agli obesogeni, nel mondo di oggi, è impossibile, ma certamente si può provare a limitare i danni. Evitare bottigliette e contenitori in plastica, oltre a contribuire a ridurre l’accumulo di plastica in sé, offre una protezione nei confronti degli obesogeni più comuni come i Bpa. E una soluzione potrebbe essere quella di purificare l’acqua del rubinetto attraverso la distillazione o l’osmosi. Acquistare cibi poco lavorati e prodotti per la casa naturali, oltre che spolverare spesso la casa, sono altre valide contromisure per tenere (per quanto possibile) gli obesogeni lontani dal nostro corpo.