Grande decelerazione E se vivere felici fosse la chiave per un’economia sostenibile?

«È dalla ricostruzione delle relazioni e dalla capacità di agire collettivamente che bisogna partire per vivere più felicemente e, al contempo, ridurre l’impatto delle attività umane sugli ecosistemi», sostiene il professor Stefano Bartolini, autore di “Ecologia della felicità”

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A (quasi) nessuno stuzzica l’idea di fare degli enormi sacrifici per garantire un futuro più luminoso a chi verrà dopo. E, forse, anche per questo motivo un certo messaggio ecologista ha faticato a trovare consensi. Ma c’è un’altra prospettiva possibile: vivere più felicemente (oggi) per costruire un’economia sostenibile e contrastare la crisi climatica (domani). È la tesi di Stefano Bartolini, professore di Economia politica ed Economia sociale all’Università di Siena e autore di “Ecologia della felicità” (Aboca edizioni). 

L’economia che abbiamo creato non è più sostenibile, né per l’ambiente né per le persone. Negli ultimi due secoli – la cosiddetta fase di Grande Accelerazione – abbiamo sperimentato un’espansione enorme, che però ha alimentato i problemi ambientali odierni. E fin qui, nulla di nuovo. Eppure continuiamo a produrre, a crescere e a lavorare sempre di più. Oltre al danno, la beffa: come dicono gli studi degli ultimi decenni sul tema, non siamo affatto felici.

Se quello che abbiamo fatto fino a oggi – puntare all’espansione economica illimitata e, nel suo nome, stimolare il possesso e la competizione – non è un’opzione sostenibile, allora occorre muoversi in un’altra direzione: decelerare. Produrre meno. Condividere di più. Ad esempio, strutturando città a misura d’uomo e non di auto, con molti spazi verdi e di incontro, così da stimolare le relazioni e gli stili di vita non impattanti sull’ambiente. Oppure adottando metodi di insegnamento e di organizzazione del lavoro che favoriscano il benessere di chi frequenta scuole e uffici, e non la competitività fine a se stessa e il sacrificio del tempo libero. 

«La costruzione di un’economia sostenibile passa da un profondo cambiamento sociale e politico», scrive Bartolini, aggiungendo che «è dalla ricostruzione delle relazioni e dalla capacità di agire collettivamente che bisogna partire per vivere più felicemente e al contempo ridurre l’impatto delle attività umane sugli ecosistemi». 

Nel libro scrive che siamo alle porte di una Grande Decelerazione: è un concetto che può spaventare, perché richiama la recessione e l’assenza di progresso. Perché, invece, dovrebbe essere una buona notizia?
«Con Grande Decelerazione mi riferisco in particolare al declino della natalità. È un’ottima notizia, dato che gran parte del problema ecologico dipende dal fatto che siamo troppi. Anche la crescita economica, intesa come crescita del reddito pro-capite, in molti Paesi sta rallentando o è praticamente ferma: è un’altra grande notizia. Capisco che sentirlo dia un senso di vertigine e tolga delle coordinate culturali che diamo per scontate: d’altronde, veniamo da due secoli di continua e rapidissima crescita e siamo completamente immersi nel paradigma dell’espansione illimitata. Ma se la Grande Accelerazione degli ultimi due secoli continuasse, non ci sarebbe modo di fermare le crisi ecologiche». 

Il mondo sta entrando spontaneamente in questa fase. Abbiamo abbastanza tempo o dobbiamo accelerare? 
«La riduzione della popolazione associata alla variazione del reddito pro-capite provocherà una decrescita economica, ma è difficile dire quando. La mia impressione è che potremmo arrivarci tra 20 o 30 anni, ma potrebbe volerci di più o di meno, anche perché il covid ha accelerato il declino della natalità. In ogni caso: abbiamo 20 o 30 anni prima che la crisi ecologica diventi irreversibile? Probabilmente no, anche se sono previsioni difficili da fare».

Nemmeno l’adozione di tecnologie verdi potrebbe rendere la crescita economica sostenibile?
«È un aspetto fondamentale della transizione ecologica, ma non basta. Servono anche una rivisitazione dei consumi, della produzione e della popolazione». 

Nel saggio spiega che il meccanismo principale che ha alimentato la crescita economica negli ultimi decenni, e dunque in qualche modo il responsabile della crisi ecologica, è la crescita difensiva. Perché?
«Potremmo definire la crescita difensiva come la funzione consolatoria e di protezione dal declino della qualità della vita collettiva svolta dal denaro. Immaginiamo di vivere in una città troppo pericolosa per uscire la sera, di avere una rete di amicizie che si sfascia. Passiamo le serate in casa e, per farlo in modo divertente, acquistiamo tv via cavo, playstation, servizi di streaming. Di fatto stiamo comprando un bene privato e costoso che sostituisce qualcosa che era in comune e gratis: una città vivibile, una rete di amicizie. 

Lo stesso vale per l’ambiente: se il mare vicino a casa diventa inquinato, compro un biglietto aereo per un paradiso tropicale. Il declino dei beni comuni e della qualità della vita collettiva ci spinge a caccia ai soldi. E quando i soldi diventano così importanti l’economia cresce, ma la qualità della vita collettiva peggiora: si inquina di più, si corre di più, ci si prende meno cura dei rapporti. Il risultato è un mondo in cui siamo ricchi di beni privati, che sono curati, e poveri di beni comuni, che sono degradati. Ma dal punto di vista della felicità, la condivisione è più importante del possesso: per questo siamo sempre più infelici, come dicono i dati».

La crescita difensiva ci porta a sfidare la natura oltre limiti non tollerabili?
«Secondo me sì. Negli ultimi 30 anni abbiamo prodotto tanta CO2 quanto nei due secoli precedenti e la crescita è stata guidata proprio da meccanismi difensivi. Se promuovessimo delle politiche per i beni comuni, che migliorino la qualità della vita collettiva, avremmo meno bisogno di soldi. Produrremmo, costruiremmo e lavoreremmo meno, ma avremmo una qualità della vita collettiva migliore e più tempo libero. Saremmo più felici e più sostenibili». 

Come è fatta una società post-crescita, sostenibile e felice?
«È una società che punta sul benessere e sulle relazioni per progredire e migliorare la qualità della vita. Per farlo, si basa su politiche per i beni comuni. Nel saggio ne elenco alcune: cambiare le città, la scuola e l’organizzazione delle imprese, limitare la pubblicità. Si inizia da un miglioramento della qualità della vita collettiva, e quello che arriva dopo sono una diminuzione della crescita economica e un aumento della felicità».

Che cosa ostacola l’adozione di questa ecologia della felicità?
«Ci sono grandi interessi economici a protezione dello status quo che sono difficili da smuovere. Ma va detto che lo status quo ormai non regge più, con le crisi globali sempre più ravvicinate e invasive: questo ci dà la possibilità di cambiare le cose. In peggio, con l’attaccamento al nazionalismo, perché ci si sente soli e impauriti. Oppure in meglio, con l’umanizzazione del mondo».

In questo contesto che ruolo ha avuto la pandemia? 
«Durante il primo lockdown le persone si sono rese conto di un fatto che noi studiosi della felicità sappiamo da tempo: le relazioni sono la cosa più importante per la felicità. Ci si è resi conto che siamo tutti interdipendenti, che la sanità pubblica è decisiva… Insomma, per decenni ci è stato ripetuto che agire collettivamente non importava e che bisognasse invece coltivare il proprio orticello e pensare a fare soldi, perché era questo il modo per ottenere una società funzionante e prospera. Con la pandemia abbiamo riscoperto che l’azione collettiva è fondamentale per risolvere i problemi collettivi. Tutto questo cambia il mondo, lo sta già cambiando».

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