Le tre repubblicheIl difficile percorso del liberalismo nella sinistra italiana

Nel suo libro “Io sono liberale”, il senatore del Partito democratico Andrea Marcucci racconta 30 anni di fatti politici, sullo sfondo di una carriera vissuta tra il PLI e il mondo dem. Con il coautore Giovanni Lamberti, offre al lettore anche alcuni retroscena particolarmente delicati degli ultimi anni

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Il libro di Andrea Marcucci (con Giovanni Lamberti, edizioni Piemme, 2022) ha un titolo molto perentorio: “Io sono liberale”. Così, senza giri di parole.

Non è un’affermazione da poco: trattandosi dell’ex capogruppo del Partito democratico, oggi autorevole membro della corrente più solida del partito, c’è dietro un messaggio. Ricorda un po’ il pamphlet di Giavazzi e Alesina di qualche anno fa: “Il liberismo è di sinistra”. Forse era meglio scrivere liberalismo, ma la provocazione c’era tutta.

Andrea Marcucci è davvero liberale, non per moda o vezzo tutto da dimostrare, e nel libro lo rivendica ricordando di essere entrato in Parlamento con il Partito Liberale Italiano, alla tenera età di 27 anni. Merito di Renato Altissimo, che convinse nel 1987 il rampollo della famiglia di Barga a schierarsi e mettersi in competizione in uno dei collegi più difficili, mai conquistati da un liberale, aggiudicabile solo in quei rari casi in cui davvero la scelta della persona conta. E i Marcucci in Valle del Serchio sono autorevoli e ben visti. Il Partito Liberale Italiano, o meglio Marcucci, passò dall’1 al 10%.

Ci aveva visto giusto, il ras locale della Democrazia Cristiana, Piero Angelini, quando aveva tentato di avviare Andrea alla politica, cominciando dalle Provinciali. Ma il ragazzo non aveva apprezzato il clima pesante della vecchia DC e si candidò si alla provincia, appunto con il Partito Liberale, diventando subito assessore, per di più con gli avversari della Democrazia Cristiana. Rappresentava il cambiamento, pur usando il vecchio simbolo liberale, il più vecchio di tutti, e la gente lo incoraggiò, anche se questo giovane dava una mano a una coalizione di sinistra, e allora c’era ancora il Partito Comunista Italiano.

Decisiva, dice ancor oggi Marcucci, fu la sintonia con Altissimo, ed è comprensibile, perché se all’epoca Malagodi rappresentava la serietà e la profondità di un liberalismo coerente, mai con la destra e severissimo con la sinistra, e Zanone la cultura, la visione pessimistica ma lucida del presente, Altissimo era il pragmatismo, il più moderno e il più smart tra i politici dell’epoca, non a caso in grande sintonia con il controcorrente Cossiga e il geniale De Michelis.

Ricordiamo bene gli esordi romani di un alieno sceso dall’appennino lucchese (magari però con l’elicottero) fino alle paludi romane, dove la politica era più che mai politicienne, e bisognava conoscerla in tutti i suoi risvolti, anche crudeli. Osservava, aveva una grande curiosità, e imparava.

Un collaboratore pane e politica come l’ex segretario dei giovani liberali Corrado Besozzi lo aiutava a non cadere nelle trappole e nelle ingenuità, dato che il periodo – già Tangentopoli in corso – era dei peggiori. Ma è stata certo una grande esperienza, da sfruttare negli anni allora lontani della Terza Repubblica, quella che con la scusa di non voler imitare la prima, e disprezzandola dal basso della propria incapacità, avrebbe spazzato via le regole più elementari della politica, anche quelle basilari (roba da Prima Repubblica) pur di avere un like. Un giorno gli sarebbe capitato di essere disarcionato da Capo dei Senatori dem non per demerito o perché isolato – anzi, proprio il contrario – ma semplicemente perché di sesso maschile.

Sta di fatto che Marcucci, come dice il sottotitolo del libro (“Cronaca di un viaggio tra tre Repubbliche”) è davvero uno di quei pochi casi di attraversamento – suo malgrado – di quella grande rivoluzione involutiva della politica italiana che va da Tonino Di Pietro pm a Giuseppe Conte vice dei suoi vice.

Liberali del Partito Liberale Italiano, in Parlamento, sono oggi rimasti in pochi, e quasi tutti a destra, ancora affezionati al mito del partito liberale di massa lanciato un’era geologica fa da Silvio Berlusconi. A sinistra c’è solo Marcucci, poco più in là Enrico Costa, che sta con Carlo Calenda.

Tornando appunto al libro, il fatto curioso è che non vi è neppure un paragrafo in cui viene spiegato culturalmente e politicamente quel “io sono” che c’è nel titolo.

Il volume è davvero una cronaca di 30 anni di fatti politici, ed è infatti questo il compito che si è assunto il cofirmatario, il giornalista di agenzia Giovanni Lamberti.

Marcucci virgoletta e chiosa qua e là i suoi commenti e il lettore è pertanto invitato a trovare da solo il modello di liberalismo in cui si riconosce il senatore del Partito democratioc, favorevole ad un approccio «attento al sociale, riformista e assolutamente moderno», come scrive nelle prime pagine ricordando un suo conterraneo che combattè con Garibaldi, Antonio Mordini, che a Barga sta fermo in un monumento che Andrea vedeva da piccolo sulla piazza del paese e che in qualche modo lo ispirò.

I fatti politici degli ultimi decenni sono tutti raccontati con dovizia di particolari e qualche retroscena gustoso, comprese le vicende sconcertanti della confermata presidenza Mattarella. E il liberale Marcucci si schiera qualche volta con sofferenza ma sempre con coerenza.

Da quando diffida del liberalismo di Berlusconi e subito dopo dell’inganno presuntuoso di Segni, fino a quando racconta da protagonista involontario l’epopea fuorviante di Mani Pulite, inorridisce per la lapidazione di Craxi al Raphael e approda infine alla Margherita, seguendo Zanone, primo tentativo di mettere insieme i diversi, forse più solido anche se non spinto dalle grandi speranze suscitate dall’Ulivo, poi anch’esse deluse. Ed è liberale il suo stupore prima che indignazione, di fronte all’antipolitica.

Insomma, rileggendo i fatti e apprezzando le osservazioni critiche di Marcucci, si può interpretare il difficile liberalismo di chi milita in una sinistra che non ha elaborato del tutto il lutto della fine tragica del comunismo, portandosi dietro il fardello di vecchie convinzioni. Tra tutte quella che la piazza vale più del ragionamento, perché è popolo. Invece è tante volte solo populismo della peggior specie.

Quindi, ad esempio, Marcucci festeggia la svolta di Veltroni al Lingotto e parteggia per il giovane Renzi incrociato nell’entourage di Rutelli, fino alla decisione in solitaria dell’abbandono del PD, che Marcucci però non condivide e non capisce, pur avendo frequentato il politico fiorentino nei giorni e nelle ore in cui la decisione è stata maturata.

Facendo una scelta non facile per uno che ad un certo momento era diventato l’unico renziano della Toscana. Ma resta una scelta molto serena, senza rimpianti.

Con l’unico svantaggio di essere sospettato di essere una quinta colonna renziana anche da capogruppo del Partito democratico, confondendo la stima con la militanza, e dimenticando appunto che Marcucci è un liberale e i liberali tengono innanzitutto ad essere considerati gente per bene.

Dunque, alla fine del libro resta importante quell’incipit del titolo, come grido solitario tra tanti liberali improvvisati e sedicenti. E questo è davvero un merito, nell’Italia che pensa che a fare i vaghi c’è sempre da guadagnare.

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