Repubblica BarnumLa campagna elettorale è appena cominciata ed è già una pena

Draghi è uscito di scena da poche ore e già si vede il peggio di ogni partito: la destra arcigna e mercantile, la sinistra attorcigliata e pasticciona. Il riflesso di una classe politica che è riuscita a mandare a casa senza motivo un grande presidente del Consiglio

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La campagna elettorale nemmeno è cominciata e già fa schifo. L’ottundimento mentale di una classe politica che ha mandato a casa senza alcun motivo esplicito un grande presidente del Consiglio (ed è tutto un rinfacciarsi: «Sei stato tu», «no, sei stato tu», che pena) è evidentemente destinato a protrarsi di qui al fatidico 25 settembre, compleanno di Sandro Pertini, che per sua fortuna non può vedere lo spettacolo di una Repubblica Barnum, come il circo.

In queste prime ore post-Draghi la scena è tra il deprimente e il disgustoso e se il livello non salirà presto nessuno poi dovrà meravigliarsi del calo dell’affluenza, se lo spettacolo è da teatrino di provincia la gente non paga il biglietto.

Senz’altro nella seconda categoria – il disgustoso – rientra l’incredibile performance concessa dal “draghiano” Tg1 a Matteo Salvini, intervistato (si fa per dire) l’altra sera dal giovane conduttore, Alessio Zucchini (forse sarebbe meglio se a intervistare i leader fossero giornalisti più esperti e magari con licenza di interloquire), un numero da Woody Allen quando fa l’illusionista (Scoop, Magic in the moonlight), cioè penoso.

Salvini pareva una fattucchiera – «dimmi, tesoro, vuoi sapere come andrà l’amore?» – seduta a un tavolino con dietro una serie di immagini sacre, icone ortodosse, crocifissi, illustrazioni votive, gli mancava il mazzo di carte ma era proprio lui che, spostando indietro le lancette, ha di nuovo agitato lo spettro dei barconi e di Elsa Fornero, poco è mancato che improvvisasse un sabba per ritrovare la fortuna di un tempo, o rinfrescasse il mojto di tre anni fa, è tornato come il conte di Montecristo, ricco e spietato, sente l’odore del sangue come i tori raccontati da Ernest Hemingway (“Morte nel pomeriggio”), è il ragazzo troppo cresciuto che già come minimo si rivede al Viminale.

Inutile dire che l’esibizione di madonne e immagini religiose, in sé raccapricciante, ha ripreso il “numero” dei comizi con il rosario in mano, una via di mezzo tra Peron, Padre Pio e la “maga” del Pasticciaccio di Gadda: politicamente ed esteticamente, un salutone alla Lega “giorgettiana” e “fedrighista” della modernizzazione del Nord: è tempo di barbari, questo, di citofoni e di famiglie fondate «sulla mamma e sul papà».

E per non essere da meno, contemporaneamente è tornato lui, Silvio, ma su questo ha già scritto parole definitive chi ha colto anche qui l’eterno ritorno del sempreguale: mentre guardavamo l’avvocato senza qualità «tomo tomo e cacchio cacchio Berlusconi si riprendeva il ruolo di sfasciacarrozze» – ha scritto Francesco Merlo – stupendo chi dopo trent’anni si illudeva su una sua crepuscolare resipiscenza morale e nazionale.

Il vecchio, di cui si dice abbia un’autonomia intellettuale per così dire a intermittenza, invece ha colpito ancora come Totò che si diverte a spaccare i vetri di Mezzacapa, stavolta regalando Forza Italia alla Lega – vai a capire se per bilanciare la Meloni o perché proprio non s’è reso conto – e irridendo chi ha detto «non sono d’accordo», i ministri forzisti che a differenza del Cavaliere avevano preferito Mario Draghi a Licia Ronzulli.

Il brutto è che immediatamente Berlusconi ha rimesso i panni del venditore di tappeti – «pensioni a mille euro!», costo stimato 60 miliardi (ndr) – ficcando la manona nel sacco del mercante di sabbia, quello stesso sacco dell’«avete capito bene, aboliremo l’Ici» e delle dentiere gratis.

Dall’altra parte c’è infinitamente più decoro (ma è sul decoro che si voterà, caro Enrio Letta?) e si è finalmente aperta qualche finestra per far uscire il lezzo populista del contismo, ma come dicono a Napoli guardi i dirigenti del Partito democratico e sembra che «hanno appena passato ‘nu guaio», c’è sempre qualcosa che non torna, la solita confusione, hanno appena coperto di terra il campo largo e già è diventato strettissimo («Renzi no, ci fa perdere voti», ha detto qualche stratega a Stefano Cappellini di Repubblica), ma poi forse si allarga ai cocomerari di Fratoianni, uno per il quale Draghi era peggio di Scelba.

Poi vogliono acchiappare Carlo Calenda ma fino all’altra sera non si erano fatti sentire, dicono sì al mite Roberto Speranza ma non al suo mentore Pier Luigi Bersani, poi rompono con il Movimento 5 stelle ma ci fanno insieme le primarie in Sicilia, quindi Franceschini chiede molti posti, e così Orlando, c’è pure una truppa di Orfini, e poi bisogna candidare Zingaretti a Roma (si voterà anticipatamente nel Lazio, un’altra batosta?), fan sfegatato di “Conte the killer”, come cantava in un gran pezzo Neil Young, “Cortez the killer”, Nicola il mai-sindaco-di-Roma, se la sbrigasse il povero Gualtieri inondato di mondezza come e peggio della Raggi.

Parte dunque nel casino strategico la campagna del Partito democratico, che si apre a Luigi Di Maio, indimenticabile accusatore del “partito di Bibbiano”, e si chiude a Teresa Bellanova, così Matteo Renzi già si è offeso per il veto nazarenico su di lui ed è sempre vittima, lui e Italia viva, del solipsismo di Calenda che non vuole nessuno dattorno, salvo aspettare a braccia aperte Gelmini e Brunetta, per non dire Carfagna. Intanto è già arrivato il senatore Andrea Cangini.

A poche ore dall’uscita di scena dell’italiano più autorevole nel mondo insomma torna il peggio di entrambi gli schieramenti come fossimo in un gigantesco blob degli anni Novanta, con la destra arcigna e mercantile e la sinistra attorcigliata e pasticciona ed ecco spiegato perché tanta gente di sinistra e di destra (e di niente) sospira: «Ma perché hanno mandato via Draghi?». Già, signora mia, benvenuta alla campagna elettorale dell’anno di grazia 2022. Grazie presidente Mattarella a mettere fretta, già non se ne può più.