In queste settimane abbiamo visto tanti commenti sulla crisi parallela (e già questo dovrebbe far pensare) di Giuseppe Conte e Matteo Salvini. Gran parte dei giudizi imputa la crisi alla loro condotta tattica: hanno fatto molti errori, dicono alcuni; sono penalizzati dal sostegno al governo, sostengono altri. Congetture, naturalmente. Non che errori non li abbiano fatti, non lo si può negare, tanto sono evidenti, ma non sono questi la ragione essenziale del loro declino. Vogliamo allora elencare gli “errori” di quelli che crescono nei sondaggi? Non è che questi non fanno “errori”, ma crescono per un’altra ragione. Così come gli altri non declinano perché hanno fatto “errori”, ma per altre ragioni. Per capirlo c’è prima bisogno di cambiare completamente la prospettiva con cui si valuta la politica.
Abbiamo un’idea della politica fondata sui leader. Il che è molto naturale. La politica altro non è, nella sua essenza, che l’effetto di qualcuno che si alza in piedi e afferma qualcosa. Se chi riceve il messaggio lo segue, allora quell’affermazione diventa subito politica, cioè delinea intorno a sé un movimento, una candidatura, un gruppo, appunto, politico. È vero. Questa è la politica. La conseguenza di questa giusta (ma parziale) visione è che i riflettori passano decisamente sul leader: cosa fa, cosa dice e, appunto, eventualmente quali errori commette. Via via che questa concezione si afferma, il procedere diventa ossessivo: si cerca di cogliere qualunque segno del leader, considerato quale aruspice delle sue intenzioni e perciò del verso che prenderà la politica; si valorizza il retroscena come fattore determinante degli eventi; si analizzano, come entomologi, le relazioni tra i diversi leader, a cominciare da quelli interni a un partito. A quel punto il vettore della politica staccata dalla realtà è lanciato, e a riprenderlo, cioè a rimettere la politica sui suoi piedi ci saranno solo le elezioni, suo unico e vero contrappasso.
E l’oggetto della politica, cioè le persone in carne e ossa, quelli che ascoltano la prima parola del leader, che fine fanno? Diventano forse all’improvviso pura ombra del leader, che si muove e prende la forma dei suoi movimenti? Niente di tutto questo: continuano a vivere di vita propria, e se hanno seguìto quella prima parola, non è detto che seguiranno anche la seconda; cioè non è detto che continueranno a camminare dietro al leader, perché potrebbero cambiare leader, ma anche fermarsi e uscire dal gioco politico. Potrebbero fare qualunque cosa, perché alla fine sono le uniche persone davvero libere.
Quando il leader si alza (cioè fa una proposta politica al Paese) è inteso dal Paese non solo per quello che letteralmente dice, o per come si auto-proclama, insomma per la label che si auto-attribuisce, ma per come è percepito e considerato rispetto ai desideri, alle ansie, alle paure o a ogni altro sentimento che in un dato momento alberga nelle persone. In maniera esplicita o implicita ogni (nuova) proposta politica parte da un punto (lo status quo) e proietta una traiettoria con un fine. Le persone esplicitamente, o inconsciamente, assumono quel punto, condividono quella traiettoria e si aspettano che sia raggiunta, o almeno vogliono vederne i risultati. Potranno anche cambiare idea nel percorso, però quell’offerta politica avrà strada finche la traiettoria sarà chiara e finché sarà condivisa. Se cede il primo e/o il secondo di questi elementi, la traiettoria cade e trascina con sé il leader. Si guarda allora al cosiddetto “errore”, alla mancata abilità del leader, alla sua inadeguatezza. Si guarda, insomma, al corto seguito degli eventi, e pochi vedono in quella caduta la vera caduta della traiettoria di lungo periodo; pochi vedono la scia dietro la stella che cade (cioè, la proposta politica che diventa impraticabile o insostenibile).
Vediamo allora le due traiettorie lunghe di Salvini e Conte e le ragioni del loro declino. La traiettoria lunga di Salvini aveva un punto di partenza: la paura degli Italiani per come l’immigrazione, percepita come clandestina e aggressiva, potesse costituire un pericolo generalizzato. Alcuni delitti efferati hanno rafforzato questa percezione; la comunicazione che vi è stata connessa ha completato il quadro e il disagio generalizzato fra i ceti più disarmati intellettualmente, provocato dalla globalizzazione e dall’automazione, hanno fatto il resto.
La proposta di Salvini ha catalizzato le paure (alcune, per altro, con una base non del tutto inventata) e le ha incanalate sul piano politico. Da questo sono nati tre problemi e una circostanza che hanno piegato verso il declino la traiettoria. Il primo: non si vive di soli sbarchi (impediti). C’è tutto il resto dei problemi e tutto il resto del Paese: poteva essere il blocco dell’immigrazione l’atto politico che avrebbe risolto tutti gli altri? No, di certo. Secondo problema, tutto interno alla proposta stessa del blocco dell’immigrazione: la sua crescita dove avrebbe portato al blocco dei porti, va bene. Ma poi a cos’altro? Si poteva (come avviene per le proposte virtuose) pensare a una crescita su sé stessa di questa prospettiva? Bloccare anche i porti degli altri Paesi? Dichiarare guerra ai Paesi di provenienza? Quale poteva essere il passo successivo? Difficile definirlo; difficile accettarlo; difficile realizzarlo. La condizione per farlo sarebbe stata l’uscita dall’Europa e dall’Euro. Davvero si poteva pensare a un’Italia senza l’Europa? Infatti, arrivato al governo con il Conte 1, questa prospettiva, nonostante ammiccamenti e giochi di parole, non è mai stata seriamente considerata.
Ecco come la traiettoria innescata all’inizio, che avrebbe per coerenza dovuto portare il Paese fuori dall’Europa a ore, non si è realizzata e perciò ha cominciato a declinare, cioè non ha più avuto orizzonte per svilupparsi ed emozione per essere ancora sostenuta. L’arrivo dell’epidemia ha cancellato il punto di partenza (la paura dell’immigrazione) sostituendola con una paura ancora più forte e pervasiva. La traiettoria si è perciò arenata del tutto.
Veniamo alla seconda traiettoria, quella di Conte, o meglio del Movimento 5stelle. Il suo punto di partenza era l’insoddisfazione delle persone verso la classe dirigente e l’espressione di un rancore generalizzato verso tutto ciò cha rappresentava l’autorità, tanto peggio se autorità pubblica e politica. Su questo punto di partenza è stato costruita un’architettura di grande azzardo ed estremamente coerente e compatta, tanto da raggiungere il consenso del 32,7% degli elettori. La traiettoria è così sintetizzabile: no all’autorità (uno vale uno), perché l’autorità non è vera autorità, ma è solo la forma che assume il potere per opprimere le masse; no alla politica come professione (negazione perciò della democrazia rappresentativa); l’onestà personale assunta a unico criterio di selezione politica.
La prova del governo, e dei fatti, si è premurata di smentire e travolgere tutte e tre le componenti principali di questa traiettoria. Perché la traiettoria avrebbe dovuto portare, per sua forza intrinseca a un regime change, cioè a un modo totalmente nuovo di organizzare la democrazia e il potere nel nostro paese. Si è visto che uno non vale uno, perché la qualità di chi decide fa la differenza; che una democrazia digitale, non rappresentativa, è meno limpida della prima e sostanzialmente ingestibile; che l’onestà personale è criterio che non garantisce il buon governo (se non accompagnato dalle capacità e dalla volontà), fragile (se unico) e volatile (se intrecciato con gli infiniti accidenti del governo).
La traiettoria che doveva portare a un mondo nuovo, a un’utopia da avverare, si è trasformata piuttosto in un tentativo di distopia. Anche in questo caso la traiettoria di partenza si è scontrata con la realtà e con la sua parzialità. Aveva promesso implicitamente di cambiare tutto, non è stata in grado (e date le premesse, non poteva essere in grado) di cambiare nulla. Al massimo ha cambiato i protagonisti, rendendoli o uguali a quel che contestavano o insostenibili con il continuum istituzionale del Paese.
Le lezioni da ricavare sono almeno tre: 1) le proposte politiche che hanno probabilità di successo devono offrire una traiettoria lunga (devono cioè essere percepite dalle persone come qualcosa che cambia davvero lo status quo). Naturalmente è possibile sostenere anche una traiettoria di continuità con l’esistente, ma devono esserne esplicitate le ragioni e il senso profondo della continuità; 2) i leader politici hanno il compito di agire (altrimenti non lo sarebbero), ma devono considerare allo stesso tempo che sono agìti, cioè sono utilizzati dalle persone per raggiungere fini che sono delle persone, non del leader; 3) se la traiettoria è giusta, gli errori sono superati o perdonati, se è sbagliata diventano trappole fatali.
Il senso finale di questo articolo è che un leader ha da svolgere fondamentalmente un lavoro intellettuale, deve partire e comprendere la realtà effettiva delle cose (cioè del pensiero delle persone), senza “wishful thinking” (per favore); avere un fine da perseguire di lungo periodo chiaro a tutti quelli che hanno voglia di capire (non solo tattica, per favore); indicare i mezzi con cui raggiungere quel fine (nessuna vaghezza, per favore). Altrimenti il successo può arrivare lo stesso, ma è come un allineare i pianeti: qualche volta succede, ma i pianeti si spostano e l’allineamento non c’è più.