Inquinati e mazziati. Se i Paesi più ricchi e industrializzati hanno causato il cambiamento climatico, sono stati i più poveri a subirne gli effetti. E la prova, ora, arriva dai dati. Un team di ricercatori del Dartmouth College ha infatti elaborato il primo modello in grado di stabilire gli effetti dei gas serra emessi da un singolo Stato sul Pil di altri 143 Stati.
Secondo lo studio, i primi dieci emettitori globali hanno causato più di due terzi delle perdite economiche a livello mondiale. Si tratta perlopiù di Paesi più ricchi della media globale e situati nelle medie latitudini e nel Nord del mondo. Gli stessi Stati che finora, dati alla mano, hanno “beneficiato” maggiormente del cambiamento climatico. Viceversa, i Paesi più colpiti dal climate change sono generalmente più poveri della media globale e si trovano di solito ai tropici e nel Sud del mondo.
Andando nel dettaglio, i primi cinque Paesi emettitori di gas serra, ossia Cina, Stati Uniti, Brasile, India e Russia, hanno provocato complessivamente perdite economiche per 6.000 miliardi di dollari dal 1990 a oggi: circa l’11 per cento del Pil globale. La fetta maggiore di questo danno è attribuibile agli Stati Uniti, che negli ultimi trent’anni si sono resi responsabili di danni per 1.910 miliardi di dollari.
Le perdite sono concentrate intorno all’1-2 per cento del Pil pro capite nelle nazioni del Sud America, dell’Africa e dell’Asia meridionale e sudorientale. Qui gli shock termici possono danneggiare indicatori economici importanti come la produttività del lavoro e le rese agricole. Viceversa, i guadagni superano il 3-4 per cento del Pil pro capite in Canada, Russia e Scandinavia, dove il riscaldamento facilita la produzione economica.
Questo studio rappresenta una svolta in quanto per la prima volta viene messo a punto uno strumento che permette di quantificare i danni economici causati dai comportamenti inquinanti dei singoli Paese. Che le aree più povere del mondo stessero pagando il prezzo più alto era però già chiaro da tempo.
Nel 2018 tre studiosi americani hanno calcolato sei possibili scenari economici che si verificheranno entro il 2100 a causa del cambiamento climatico. Tutti e sei i Paesi più poveri sono destinati a subire seri danni alla propria economia. Mentre gli Stati più ricchi si troveranno in una situazione migliore in tutti gli scenari, a eccezione di uno.
In questo caso le differenze politiche e sociali tra i Paesi contano poco: pur riconoscendo l’importanza della ricchezza e della tecnologia, lo studio ritiene che la ragione principale per cui i Paesi poveri sono e saranno così vulnerabili è la loro posizione geografica. I Paesi alle basse latitudini hanno infatti già in partenza delle temperature molto elevate. E l’ulteriore riscaldamento spingerà questi Stati sempre più lontano dalle temperature ottimali per i settori economici sensibili al clima.
Le conferme ci sono già: due ricercatori dell’università di Dacca hanno pubblicato nel 2018 uno studio in cui denunciano come milioni di abitanti del sud est asiatico saranno, e in alcuni casi già sono, costretti a lasciare le proprie dimore a causa delle alluvioni e degli eventi estremi che minacciano di rendere inabitabili, o addirittura sommergere, diversi territori di questa regione. Un esempio su tutti è quello della capitale indonesiana Giacarta, che rischia di finire inghiottita interamente dal mare entro il 2050. Una situazione che ha portato il governo locale a pensare fin da ora a una possibile nuova capitale.
Chiaramente sulle disuguaglianze degli effetti dei cambiamenti climatici influisce anche la ricchezza stessa dei Paesi. Il report pubblicato quest’anno dalla società di consulenza Maplecroft ha diviso gli Stati in “indifferenti”, “precari” e “vulnerabili” rispetto ai cambiamenti climatici. L’analisi ha esaminato le prestazioni dei Paesi su 32 indicatori, tra cui eventi meteorologici, stabilità politica, potere economico, povertà e diritti umani, per valutare la capacità di ciascuna Nazione di gestire le crisi. Si tratta dell’ennesima prova di quanto i Paesi più inquinanti (e ricchi) siano paradossalmente in una posizione avvantaggiata.
«Questa analisi dimostra la necessità per i Paesi sviluppati di aiutare le Nazioni che non possono aiutarsi da sole», ha dichiarato Will Nichols, il ricercatore che ha prodotto il report di Maplecroft. Ma nel frattempo la risposta tarda ad arrivare. Nell’ambito del piano d’azione per il clima delle Nazioni Unite, nel 2009 i Paesi ricchi avevano promesso di fornire cento miliardi di dollari all’anno ai Paesi a rischio entro il 2020, ma finora non sono riusciti nemmeno ad avvicinarsi a questo obiettivo: sulla base degli impegni e dei piani attuali, Oxfam stima che i governi ricchi continueranno a non raggiungere l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari e che raggiungeranno solo 93-95 miliardi di dollari all’anno entro il 2025. Un ritardo quindi di oltre cinque anni, che potrebbe avere effetti disastrosi per i Paesi vulnerabili esposti al rischio di perdere tra i 68 e i 75 miliardi di dollari nell’arco di sei anni.
Numeri che fanno paura se si pensa che stiamo parlando di Paesi già impoveriti e colpiti da catastrofi climatiche. Ci sono i migranti che scappano dal cambiamento climatico, le denunce dei Paesi colpiti, gli appelli delle istituzioni internazionali e, ora, anche i dati e le prove scientifiche. Mancano solo le azioni dei governi più ricchi.