Soft Cell, “Non-Stop Erotic Cabaret” – 1981
Il più intrigante, forse il più bello, sicuramente il più originale ed estremo disco di synth-pop dei primi anni 80 è l’album di debutto dei Soft Cell. Un duo, voce e tastiere elettroniche, che pubblica un album che assomiglia a un depliant sonoro per un tour notturno nella zona rossa di Londra, fra sex club e quadretti di indulgenza e tristezza esistenziale, e fotografa in maniera cruda la scena e la vita dei nottambuli, fra droghe e perversioni, depressioni e momenti di euforia.
Questa sceneggiatura, a sentirla così non particolarmente eccitante, viene però portata in scena con un dono melodico/ritmico da un grande creatore di tessiture sonore, Dave Ball, e recitata/cantata con voce da soulman bianco da Marc Almond con un’identificazione così empatica con i suoi testi – e con un tocco di dark humour così tipicamente British – che il risultato finale è irresistibilmente attraente.
«Isn’t it fun, sugar and spice, to lure disco dollies to a life of vice?», il famoso ritornello di ’Sex Dwarf’ -il brano più osèe del disco, con l’accompagnamento di un video censurato ancor oggi- ne è una buona sintesi. ’Tainted Love’, il singolo più venduto dell’81, è il cavallo di troia che entra ovunque, su qualsiasi radio e pista da ballo del mondo, portandosi dietro tutto il resto. Sesso, humour, esagerazioni, su ritmo e musica irresistibili. Benvenuti nel mondo oscuro e perversamente fascinoso dei Soft Cell: pruderie a parte, c’è da divertirsi (e ballare) parecchio.
Si dice di non giudicare un libro dalla copertina (la versione inglese dell’abito che non fa il monaco), ma questa è, al contrario, una prefazione grafica perfetta: il telo nero gommato alle spalle, le scritte al neon, l’abito da 80s-look di Ball e Almond, la posa un po’’cazzo guardi?’. Tutto essenziale, ma molto caratterizzante. E poi, esattamente, cos’è che Almond maliziosamente nasconde in quella busta di carta che fuoriesce da suo giubbotto di pelle? Effettivamente, potrebbe anche essere un disco da vendere sottobanco e imbustato.
Come ha scritto Richard Smith nelle note di copertina dell’edizione ampliata e rimasterizzata del 1998, «la parola usata più spesso per descrivere questo disco è stata ’sleazy’, squallido. Ma è un disco sulla realtà. La Disco era stata ’sex music’ ma pseudo-sofisticata. I Soft Cell sono stati i primi a descrivere accuratamente la visione inglese del sesso: furtiva, ipocrita, sporca e piena di sensi di colpa, ma occasionalmente liberatoria. Proprio come queste canzoni che si rifiutavano di rincorrere miti sulla vita glamour, e volevano invece esporre la cupa realtà di stare in oscuri bedsit e di andare in club trasandati dove i tuoi piedi si incollavano alla moquette».
Camere in affitto squallide dove rimuginare sulla propria sfigataggine, cinemini porno dove «far conoscenza con uno sconosciuto», nani del sesso al collare e guinzaglio con cui scorrazzare per i privè dei club after hours: il cabaret erotico senza soste vive di queste immagini e si sostiene con una musica elettronica che ha qualche lontano riferimento ai Kraftwerk e a Bowie, al Commodore 64 e a gli americani Suicide, ma soprattutto è molto lontana dall’elettronica che fiorisce nei club londinesi più alla moda, quelli frequentati dai New Romantics di cui i Visage di Steve Strange sono l’emblema, in pista e in classifica. Là, è tutto glamour modaiolo, esibizione di gay-tudine puramente estetica, stravagante e sopra le righe: qui l’esibizione, o meglio la messa in mostra, è quella di viziosi di ogni tipo che abitano marciapiedi illuminati dal neon delle scritte o in club dove tuffarsi nel buio per sensazioni forti.
Il pop che sta dentro ogni linea di synth di Ball, e il tono iperreale e sarcastico di Almond, lo trasformano però in un’avventura dalla quale è difficile tirarsi indietro (se non capisci l’inglese poi, figurati) perché è tutto così orecchiabile. E allo stesso tempo, pieno di personalità musicale e testuale. È davvero electro-cabaret, ovvero la parodia teatrale di una realtà che i più non vogliono conoscere. Un po’ come capitava ai personaggi delle canzoni di Lou Reed: tutto vero, ma dov’è il confine fra vita vissuta e intrattenimento vinilico?
«Fondamentalmente eravamo due giovani che vivevano a Leeds che si sono trovati improvvisamente a Soho», disse ai tempi Dave Ball a Penny Black Music: «Era più una cosa di curiosità, in realtà non partecipavano a nulla del genere. Andavamo in posti come il Naked City Cinema solo per assaporarne la vibrazione. Eravamo come turisti del sesso, ma senza fare la parte del sesso! Era piuttosto ’Wow! Questo è davvero eccitante. Che sta succedendo qua?’. In realtà ci piaceva molto l’immaginario e lo squallore. Era più una cosa artistica che una cosa sessuale».
Non a caso, i due provengono proprio dal Politecnico di Leeds, Dipartimento Artistico, Ball un anno più avanti. Il contesto è l’Inghilterra a cavallo fra 70 e 80, caratterizzata dal punk, dal potere Tory di Margaret Tatcher poco amichevole nei confronti dei giovani squattrinati e ribelli, da una situazione economica miserevole, da un cambiamento radicale di sound che apre il post-punk, ovvero la strada – fra synth e batterie elettroniche- verso un decennio che sarà dominato dai suoni sintetici.
Marc si fa conoscere presto sulla scena artistica come performer dal vivo, roba tipo denudarsi di fronte a uno specchio a grandezza naturale cospargendosi con cibo per gatti. Ascolta le musiche di Ball, gli chiede se può usarle per il suo show. «Era solito passare in zona e ascoltare tutti questi strani rumori elettronici con cui giocavo», ricorda Ball a The Indipendent, «un giorno è entrato e mi ha chiesto il permesso di usarla. La mia idea di pop music era molto di suoni, canzoni minimalistiche su party e mondanità. ’Posso cantarne qualcuna?’, ’Certo, perché no? Hai una voce migliore della mia’. I Soft Cell sono cominciati così».
Sono pieni di idee, e cominciano a scrivere insieme, Marc diventa prolifico e tagliente coi testi, «una macchina da parole», Dave che continua a occuparsi della musica. «Lavoravamo di continuo, tutto il giorno, non facevamo altro. Mi alzavo la mattina, accendevo il mio registratore, facevo partire il sintetizzatore e scrivevo svariati brani al giorno, anche solo degli abbozzi di melodie o linee di basso. E funzionava, perchè condividevamo gli stessi gusti in musica e nell’arte, e una visione malata, contorta, del mondo. Scrivevamo del lato più oscuro della società e delle emozioni, ed esploravamo l’underworld e altri mondi. Ma non credo ci fosse niente di nuovo nel farlo. Seguivamo una tradizione di canzoni bizzarre da music-hall o della canzone francese dove parlavano della vita nella fogna e delle prostitute sulla strada. Guardavamo alla vita vera, e c’è una grande passionalità e qualcosa di seduttivo in tutto ciò».
I brani vengono in fretta, e le prime apparizione creano loro un seguito, ovvio target coloro che in proprio si sentivano simili, outsider o disadattati in cerca di una musica con cui identificarsi. Provano a mandare dei demo a Case discografiche, ma vengono rimbalzati. Allora, con duemila sterline prestate dalla mamma di Dave incidono su un semplice due piste un primo EP di quattro pezzi, ’Mutant Moments’. Una delle 2000 copie pressate arriva a Stevo Pearce, 17enne dj e recensore, per la rivista Sounds, di demo di band senza ancora un contratto. Steve rimarrà il loro manager, e li porta alla Some Bizzarre, nome ed etichetta perfetta per loro, distribuita dalla Phonogram. Fanno uscire un primo singolo, ’Memorabilia’, un successo nei club, ma zero impatto in classifica. L’Inghilterra è piena di produzioni indipendenti, è facile far uscire qualcosa ma altrettanto essere mollati se non funziona. Gli viene data una seconda chance, che si rivela l’intuizione della vita.
«A volte sento di dover scappare via
Devo andarmene via
Dal dolore che mi spingi nel cuore
L’amore che abbiamo condiviso
Sembra non andare da nessuna parte
E ho perso la mia vita
Mi giro e rigiro, non dormo la notte
Una volta correva da te
Ora corro via da te
Questo amore guasto che mi stai dando
Ti ho dato tutto ciò che un ragazzo poteva darti
Prendi le mie lacrime e non è neanche tutto
Amore guastato
Tainted love…»
’Tainted Love’, scritto da Ed Cobb, membro dei poco conosciuti Four Preps, nel 1964 è stato inciso senza successo da Gloria Jones, cantante afroamericana, futura fidanzata di Marc Bolan e corista per i T.Rex, in quegli anni una performer in stile Tamla Motown. Il pezzo, scovato e portato in Inghilterra dal dj del Wigan Casino, diventa una hit del movimento Northern Soul, quel trend di musica nera ballabile – spesso brani ’minori’ della Stax, Motown ed etichette soul misconosciute americane – che arriva a una popolarità pazzesca nelle balerone/dancehall dell’Inghilterra nel Nord negli anni 60. Non a caso, è la zona di Leeds da cui provengono i due.
Il produttore Mike Thorne lo sente, buono per la pista ma non gli piace come prodotto discografico: l’originale, un classico r’n’b con cori femminili, viene rallentato e abbassato di tonalità, il suono nero mutato in elettronica giocattolosa, una semplice batteria ritmica sotto, i fiati diventano linee sintetiche scandite dalle tastiere di Ball, e in cima un’interpretazione molto passionale di Marc. Entra nel loro repertorio live, in competizione con un altro brano simile, ’The Night’ di Frankie Valli (quello di ’Beggin’’, il megahit dei Maneskin), ma la sliding door scivola giusta, viene prescelto e nell’inverno del 1981 arriva dritto al numero uno. Sul retro (o in sequenza sull’extended mix) un altro brano Tamla, ’Where Did Our love Go?’ delle Supremes: pessima scelta, perché quando il singolo supererà il milione di copie (negli USA ancora detiene il record di permanenza nella Top 100, 43 settimane), diventando un inno da discoteca, i Soft Cell praticamente non guadagneranno una sterlina di diritti. La loro apparizione a Top of the Pops per molti vale simbolicamente quella di Bowie/Ziggy quasi dieci anni prima, e apre la porta a un genere in quel momento ancora embrionale. Nel giro di poco arriveranno i Depeche Mode, gli Yazoo, i Pet Shop Boys e tutte le band inglesi di tecno-pop (come lo chiamavamo da noi).
Visto l’incredibile successo, per il duo arriva un contratto e il budget (non alto) per fare un album. I due sviluppano le loro idee in questo territorio che ha elementi «della scena Eurodisco, con l’idea di un electro-cabaret melanconico, introspettivo» ma, dal loro punto di vista, tutt’altro che futuristico, come molti li definivano: «Quando dicono che siamo una band futuristica rimango basìto», disse Marc ai tempi: «Perché scriviamo di cose attuali, di due secondi fa sul giornale. E lo fondiamo con una musica che ha le radici negli anni 60. In effetti, è tutto meno che futuristico. È il motivo per cui ci va bene in entrambe le maniere, siamo molto ’adesso’ e molto nostalgici allo stesso tempo». Musica elettronica ma molto umana allo stesso tempo. «Mi piace molta musica sessuale: la Tamla, la buona Disco, non quella tedesca, troppo fredda. Cerchiamo di dare alla Disco una dimensione più selvaggia, più fuori controllo».
In modo non dissimile da Lou Reed, Marc crea personaggi che abitano e diventano i soggetti delle canzoni. Ognuna è una storia sulla quale affacciarsi, non a caso Almond definì l’album «un peep show». Il tutto introdotto da un urlo iniziale, Frustration!!, la frustrazione di un uomo normale che vorrebbe rompere le pareti della sua ordinaria quotidianità:
«Ho una vita, una moglie ordinaria
Ho una macchina, un bar preferito
Ho un lavoro, uno stipendio discreto
Ho i problemi che arrivano con l’età
Sono così ordinario
Ho una figlia, che fa la selvaggia
Ho una casa, il mio mutuo
Ho degli hobby, ma niente di speciale
Faccio il giardino, guardo le ragazze
Sono così ordinario
Ho una vita, in gabbia
Sto perdendo i capelli, voglio dire al mondo
Che non ho fatto niente
Non ho raggiunto nulla
Lavoro per una ditta
Ma vorrei bruciarla al suolo
Frustrazione, frustrazione…
…Comincia a non fregarmi più di nulla
Vorrei arrivare all’intoccabile
Film con Bruce, John Wayne, Elvis Presley
Sperimentare con la cocaina, l’LSD, essere un pessimo esempio per tutti
Vivere un poco, avere un harem, essere una tigre
Incontrare Bo Derek ed essere il suo Tarzan
Andare fuori
Vivere vivere vivere
Morire morire morire
Voglio morire».
È un quadro perfetto delle frustrazioni di una vita ordinaria, l’unica cosa strana è come un ragazzo così giovane lo riesca a cogliere, suppongo a volte basti guardarsi intorno: «Sai che a volte penso anch’io di essere il Signor Ordinario? Mi confonde, lo sono o no? Forse questo è il senso dell’album. Ho sempre trovato qualcosa di attraente nella vita da poveracci, nella corruzione, nella decadenza. Nelle aspirazioni delle persone quando sono così più grandi della realtà della loro vita. Queste sono le mie osservazioni, nelle quali metto molta esagerazione e fantasia, come quando giri la manopola del colore sulla tv. Quello di cui scrivo, quello che mi interessa di più, è la perdita dell’innocenza e della gioventù, di quelle cose che non potrai mai ricatturare».
’Seedy Films’, film squallidi, sono gli incontri «mentre respiro così forte, di fianco al mio vicino/sentendomi sordido in questa squallida città del peccato», e ’Secret Life’ è la presentazione del conto finale di una doppia vita vissuta fra desideri inconfessabili e ricatti, attanagliati dall’ansia e dalla paura di essere scoperto:
«Nel tuo libretto Nero hai i nomi
E i modi preferiti per convincere quelli sulla prima pagina
Io sono lì sotto la A ma la mia valutazione è B
Hai le foto per provarlo
Ma giuro su Dio non sono io
Hai un cuore di pietra, essere duro è la tua arte
Pensi l’amore sia una parola sporca sporca
Tiri sù il telefono e mi chiami quando sono a casa
Poi metti giù, e io mi allungo verso il mio Valium»
Lenta e atmosferica, ’Youth’, come potrebbe essere altrimenti?, non è l’elogio della gioventù ma la consapevolezza che ormai è sfiorita via:
«La giovinezza è andata, anche se siamo ancora giovani
Difficile credere che una volta ero il figlio di qualcuno
II ricordo di quello che eri una volta
Il ricordo di quello che eravamo
Giovinezza
Dormi prondamente
La bellezza è profonda (solo) quanto la pelle»
Il trittico ’Sex Dwarf’,’Entertain Me’ e ’Chips on My Shoulder’ è praticamente un dance-mix e per 13’ è centro pista che non ti molla, electro-ritmo e strati su strati di elettronica semplice ma dannatamente efficace. Ottimo esempio di come con pochi mezzi si possa creare qualcosa di innovativo e clamorosamente diverso da tutto. Registrato quasi tutto su un Revox, e suonato con una batteria elettronica Roland prestata, un Synth basso Korg SB-100 e un NED Synclavier di Thorne, questo era l’unico strumento davvero costoso, 120mila sterline: «Questo era il nostro vantaggio tecnologico su tutte le altre band. Mi ricordo (il produttore) Don Was che mi chiamava, disperato per capire come avevamo ottenuto quei suoni».
’Sex Dwarf’, provate a resistere al ritmo se ci riuscite, è ovviamente il brano su cui si riversano gli strali moralisti e censòri, quando esce il video in cui si mischiano prostitute assoldate nei club di Soho, carne fresca e un nano (che poi avrà il suo momento di gloria al cinema) che interagiscono, più provocatoriamente possibile. Ancora oggi è introvabile, su YT sotto la dicitura criptata SD si trova una sorta di making of con intervista.
Altro pezzo clamoroso (ulteriore #2, come altri brani, il numero uno solo col pezzo ’non loro’…) è la cartolina iperrealistica di ’Bedsitter’, le stanze in affitto con bagno comune, una vita di solitudine e finzione «come mille persone proprio come me» osservata con spietata lucidità:
«Domenica mattina, va tutto lento
Parlo con la radio
Dischi e vestiti sul pavimento
Ricordi della notte prima
Là fuori in terra di club
E ora mi nascondo dal sole…
Cerco qualcosa di nuovo da mettermi
Cominciare la vita notturna tutto daccapo
E illudermi che mi sto divertendo
Ballando ridendo bevendo amando
E ora sono tutto solo
In terra di bedsit, la mia unica casa»
La finale ’Say Hello, Wave Goodbye’ è una ballata (ammesso che si possa definire così) triste anch’essa, una storia d’amore mal finita che forse non avrebbe mai avuto ragione d’essere, ma con un’apertura melodica straordinaria. E, va rimarcato ancora una volta, con un’interpretazione di Almond eccellente. Con tutti i suoi limiti vocali, Marc ci mette però una tale passione, talmente tanta convinzione in quello che canta che si trasforma in un torch singer emotivamente struggente in ogni singolo brano. Domina su tutto l’ambiente, la sua voce una parte integrante del tutto sonoro, per quanto sorprendenti le tessiture di Ball sarebbero solo suoni se non fossero arricchite in maniera così particolare dal suo timbro. Per entrambi, il risultato è infinitamente superiore al mezzo di partenza.
Noia, amarezza, morte, peccaminosità, indulgenza, rimpianto: non sono materia facile da rendere sexy e (a modo suo) sublime, o divertente e irresistibile. Ma suppongo questa sia la magìa di questo disco, totalmente diverso da quello che si sentiva in giro in quel periodo. Non che le recensioni all’uscita siano state accoglienti e accomodanti, non tutte quantomeno.
Indignazione, «banalità e testi piatti, promesse non mantenute» (certa stampa sembra aver sentito un altro disco), neanche la stampa gay sapeva se additarli come eroi o come traditori. E poi le polemiche su Almond, dichiaratamente gay, le offese e l’omofobia ricorrente sulle riviste e per la strada: «sono diventato una calamita, subendo aggressioni da spavento. C’era molto odio verso di noi, vivere a Leeds mi intimoriva. I Soft Cell hanno fatto rinascere un sacco di vecchi pregiudizi. La gente ci trovava minacciosi. Quando ci paragonavano a Boy George, pensavo che non eravamo così. Avevamo un taglio rock, mischiato con l’electro degli anni 80. Eravamo gotici, ci piaceva New York e gente come i Suicide, i Throbbing Grisle, Gary Numan, ci piaceva il lato dark della electro».
Ora è considerato un classico, accompagnato dalla versione da ballo ’Non Stop Ecstatic Dancing’ e quella video ’Non-Stop Exotic Video Show’, e i Soft Cell nella reunion del 2018 hanno riempito senza problemi, loro che partivano dai piccoli dance club, la O2 a Londra, 20mila persone in estasi non-stop. Il tempo, si vede, è gentiluomo anche con i trasgressori per antonomasia. «Ne sono veramente orgoglioso», ha dichiarato Marc sempre a Classicpopmag «ma è un disco uscito da un periodo veramente duro. Abbiamo sempre pensato che eravamo anti-establishment, e cercavamo di essere un po’ un antidoto a quello che andava per la maggiore. Abbiamo cercato di illuminare quello che succedeva nel Regno Unito della Thatcher, il buio che stava dietro la facciata. Quando scrivevamo di Soho e di tutto il resto, era una rappresentazione della Gra Bretagna della Thatcher. Non parlava di Soho, era una metafora. Buona parte della musica allora era molto conservativa, noi un antidoto al lato pulito e integro di un paese conservatore. Non eravamo politici nel senso di sventolare bandiere e fare Rock Against Racism e tutte quelle cose lì, ma cercavamo di essere un po’ più sovversivi essendo semplicemente noi stessi. Arrivare con un nostro disco in radio lo sentivamo come un trionfo, essendo io quello che ero, con lo psicotico Dave dietro le tastiere. Un sacco di pop era molto patinato e ben prodotto, tutti abbronzati e belli da vedere. Noi volevamo portare un po’ di aria sporca, lo sporco sotto il tappeto. Ci vedevamo come una rappresentazione della Gran Bretagna che stava crollando sotto la facciata».