Il Paese ristrettoI cinquantenni sono la nostra forza lavoro, ma per i prossimi anni non sappiamo come sostituirli

La demografia italiana parla chiaro: la fascia più attiva sarà sempre più risicata mentre crescerà la specializzazione delle competenze richieste. Trovare chi prenderà il loro posto sarà sempre più difficile. Se invertire la natalità è impossibile, servirà insistere sul reskilling degli occupati

di Daniel Jensen, da Unsplash

Nel 2050 vi saranno in Italia oltre due milioni di 50enni (coloro che hanno tra 50 e 59 anni) in meno rispetto al 2020, 6,42 contro 8,49, mentre i 40enni (40-49 anni) diminuiranno di circa 1,8 milioni, da 9,03 a 7,22 milioni. Questi ultimi in realtà per allora saranno leggermente risaliti, rispetto a un minimo di 7,08 milioni nel 2035.

Sono questi i numeri di Eurostat, che come accade sempre nel caso delle stime, sono in realtà una media di diversi scenari, tra cui ve ne sono anche di molto più radicali.

Molti potranno pensare che il 2050 è lontano, ma in realtà manca lo stesso lasso di tempo, 28 anni, che è passato dal 1994, ovvero l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi, o dei mondiali Usa persi in finale con il Brasile. No, non è un futuro così remoto.

Dati Eurostat

Anche i componenti delle fasce d’età più giovani sono destinati a decrescer, ma a un ritmo inferiore, se non altro perché sono già diminuiti in modo notevole negli ultimi decenni.

In termini sia assoluti che percentuali, quindi, nei prossimi 15-20 anni sarà la riduzione dei 40-50enni a rappresentare il trend demografico di maggiore impatto.

Sarà decisamente più significativo di quello che si vedrà nel resto d’Europa, considerando che, per esempio, i 50enni italiani saranno scesi del 22,4% entro il 2040 e del 24,4% entro il 2050, mentre nella UE la diminuzione sarà rispettivamente del 9,3% e del 16,5%.

Vi sarà una parziale compensazione grazie all’andamento differente della generazione dei 30enni, i cui numeri gioveranno della momentanea ripresa delle nascite che vi è stata nel periodo 1995-2008, soprattutto grazie alla popolazione straniera, ma si tratterà solo di un palliativo.

Dati Eurostat

Perché tutto ciò è rilevante? Perché è più importante di quello che accadrà invece alle altre fasce di età, quelle più anziane e quelle dei bambini?

Perché sono loro, i 20-64enni, a fare parte della forza lavoro, a fare impresa, a investire, a svolgere tutte quelle mansioni che la tecnologia potrà difficilmente rimpiazzare e per cui già oggi si fatica a trovare personale, dai camerieri ai facchini negli aeroporti.

E tra i lavoratori 20-64enni i 40enni e i 50enni rappresentano la quota maggioritaria, basti pensare ci sono sei milioni e 541mila 50-59enni occupati contro quattro milioni e 741mila 30-39enni.

Dati Eurostat

Il tessuto produttivo dipende da loro, la fascia più anziana dei lavoratori, quella più prossima dalla pensione, più di quanto accada nel resto d’Europa.

Se i 40-59enni occupati rappresentano il 37,3% della forza lavoro complessiva (inclusi disoccupati e inattivi) nel nostro Paese e il 38,8% nella Ue, il gap si nota nei numeri sui 20-39enni: sono il 29,7% della popolazione 20-64enne nell’Unione Europea, mentre in Italia arrivano solo al 21,7%.

Dati Eurostat

Il guaio è che questo vuol dire che una parte rilevante di coloro che tra poco smetteranno di lavorare non potranno essere rimpiazzati. Come i dati mostrano i 30enni attuali non bastano a sostituire i 50enni.

È un problema che riguarda tutti i Paesi che da più tempo stanno vivendo un calo delle nascite, quindi Lettonia e Lituania, Romania, Bulgaria, Grecia, Portogallo, e appunto Italia, assieme alla Germania. Qui entro il 2050 si assisterà a una riduzione di più del 20% o anche del 30% di quanti hanno tra 50e 59 anni.

Andrà meglio in Francia, nei Paesi Bassi, in generale nel Nord Europa, con Paesi come Svezia e Irlanda che vedranno invece il segno più. Si tratta di quelli che negli ultimi 20 anni hanno visto, guarda caso, i tassi di fertilità più elevati.

Dati Eurostat

È l’ennesima conferma del fatto che avere migliori dinamiche demografiche oggi è benefico per l’economia e il welfare di domani. L’Italia dovrà affrontare invece una riduzione della forza lavoro. Questa si tradurrà sia in una mancanza di personale per l’industria e i servizi molto più severa di quella che si intravede oggi in alcuni settori, sia in un calo della domanda, a causa della diminuzione della percentuale di italiani nella fascia che più consuma. Oltre che in una crisi del welfare, che vedrà i sempre più anziani dipendere da una forza lavoro sempre più piccola.

È facile obiettare: ma come, con tutti i disoccupati e gli inattivi che vi sono, non potranno essere questi a rimpiazzare i 50enni che vanno in pensione se non bastano i 30enni?

In realtà i dati ci dicono che per esempio tutti i 30-34enni, includendo chi non lavora, sono meno dei soli 50-54enni occupati, ma il vero problema è un altro: le persone non sono pedine che si spostano a piacimento e che possono occupare tutte le posizioni.

Il lavoro è sempre più specializzato e a essere decisive sono soprattutto le competenze, che non si possono improvvisare.

Già oggi il mismatch tra quelle richieste e quelle possedute dai lavoratori italiani sono maggiori di quelle degli altri Paesi, in particolare di quelli analizzati dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies (PIAAC) dell’Ocse.

La percentuale di occupati under-skilled, ovvero con meno competenze di quelle necessarie per un determinato impiego, è del 10,2% nel nostro Paese, ma sale al 17,7% proprio tra i blue-collar, ovvero gli operai, specializzati. Ce ne sono già ora troppo pochi, e un sesto di quelli che svolgono il loro lavoro non hanno le conoscenze necessarie.

Sono più della media anche tra i più giovani, gli under 30 che dovranno rimpiazzare i futuri pensionati, e poi tra gli stranieri, tra cui arrivano al 26,4%.

Dati Ocse, indagine sul mismatch in literacy

Questi dati si riferiscono a chi ha già un impiego. I disoccupati e gli inattivi sono solitamente ancora meno forniti di competenze. Significa che siamo di fronte, nei prossimi anni, all’inasprimento di quella doppia crisi che già si intravede, e che solo in apparenza presenta caratteristiche contraddittorie, ovvero la compresenza di una carenza di lavoratori in sempre più settori e una permanenza di larghe fasce di inattivi.

Se fare risalire la natalità appare qualcosa di arduo, e quasi impossibile, forse più fattibile, e sicuramente necessario, è l’avvio di programmi di formazione, reskilling, upskilling, di giovani e meno giovani, occupati e disoccupati.

L’alternativa è un Paese, a metà secolo, fatto di anziani mantenuti da una forza lavoro non solo ristretta, ma anche poco istruita e produttiva. In una parola, un Paese più povero.

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