Prima dell’invasione del 24 febbraio tutto l’Occidente di vedere concretizzarsi sul campo l’enorme differenza tra l’esercito russo e quello dell’Ucraina. Ammassati al confine tra i due Paesi c’erano 190mila soldati al servizio di Vladimir Putin, ben 120 gruppi tattici, tutti muniti di molte armi, difese e artiglieria, e supporto aereo alle spalle. Pochi immaginavano che le forze ucraine avrebbero potuto resistere a lungo contro una simile organizzazione.
Il potere militare, però, non si pesa solo con gli armamenti e il numero di munizioni. Bisogna tener conto delle risorse del nemico, dei contributi che possono fornire Paesi alleati e partner, ma anche nella qualità degli armamenti stessi – la differenza tra i vecchi sistemi sovietici e i più sofisticati della Nato è enorme – e dall’addestramento e dalla motivazione del personale che li utilizza.
A questi elementi vanno poi aggiunte la capacità economica di un Paese nel sostenere lo sforzo bellico, la resilienza dei sistemi logistici per portare i rifornimenti al fronte, la capacità di mantenere il sostegno per la propria causa e minare quella del nemico, con la costruzione di narrazioni avvincenti in grado di razionalizzare le piccole sconfitte durante il percorso.
Soprattutto, va considerato che il potere militare dipende da un comando efficace. E questo include sia i leader politici di un Paese, che agiscono come comandanti supremi, sia i quadri dell’esercito. L’invasione dell’Ucraina è un promemoria sul ruolo cruciale del comando nel determinare il successo militare. I leader occidentali lo hanno imparato a loro spese – in epoca recente – in Afghanistan e in Iraq: l’equipaggiamento militare e la potenza di fuoco superiori possono ottenere controllo del territorio, ma incidono poco o nulla nella fase di mantenimento e di amministrazione di quella stessa zona.
«In tempo di guerra, i comandanti affrontano la sfida speciale di persuadere i subordinati ad agire contro i propri istinti di sopravvivenza e superare le normali inibizioni sull’uccisione dei loro simili», scrive Lawrence Freedman sul nuovo numero di Foreign Affairs.
L’autore dell’articolo, docente di War Studies al King’s College di Londra, spiega che il comando militare è considerato un tipo specifico di leadership e le qualità ricercate nei capi militari sono le stesse che andrebbero bene in molti altri contesti lavorativi: profonda conoscenza professionale, capacità di utilizzare le risorse in modo efficiente, buona comunicazione, capacità di andare d’accordo con gli altri, un senso di scopo morale e di responsabilità. La differenza rispetto agli altri lavori è nell’alta posta in gioco della guerra e nello stress del combattimento.
Solo che non tutto dipende dai leader: «Non tutti i subordinati seguiranno automaticamente i comandi», si legge su Foreign Affairs. «A volte gli ordini sono inappropriati, forse perché si basano su informazioni incomplete e possono quindi essere ignorati anche dall’ufficiale sul campo più diligente. I subordinati possono cercare alternative alla totale disobbedienza: possono procrastinare, eseguire gli ordini con noncuranza o interpretarli in un modo che si adatta meglio alla situazione che devono affrontare».
La moderna filosofia di comando si è evoluta in altre direzioni: i comandanti si fidano sempre più spesso di coloro che sono vicini all’azione per prendere le decisioni vitali, poi sono pronti a intervenire se gli eventi vanno storti. La filosofia di comando della Russia invece è ancora antiquata, è gerarchica. E sistemi di comando così rigidi possono portare a un’eccessiva cautela, con i subordinati che non osano segnalare problemi e invece insistono sul fatto che tutto va bene.
Quando Putin ha lanciato quella che ha definito «un’operazione militare speciale» in Ucraina, molti osservatori occidentali hanno temuto coscientemente che potesse avere successo. Ma è stato dato poco peso al fatto che l’accumulo di truppe russe, nonostante le dimensioni formidabili, era tutt’altro che sufficiente per prendere e controllare tutta l’Ucraina. Anche molti all’interno o collegati all’esercito russo avrebbero avuto gli elementi per comprendere le difficoltà.
All’inizio di febbraio Igor Girkin, uno dei primi leader separatisti russi nell’invasione della Crimea del 2014, ha osservato che l’esercito ucraino era più preparato di quanto non fosse otto anni prima. Eppure Putin non ha consultato esperti sull’Ucraina, ha preferito affidarsi ai suoi più stretti consiglieri – molti vecchi compagni del Kgb – che hanno fatto eco alle sue opinioni.
Così fin dall’inizio dell’invasione sono state messe in luce gli evidenti limiti del piano russo: il Cremlino prevedeva una guerra breve, con avanzamenti decisivi in diverse parti del Paese fin dal primo giorno – l’elevato numero di direttrici di avanzamento ha creato una serie di guerre separate combattute contemporaneamente, ciascuna con le proprie strutture di comando e senza un meccanismo appropriato per coordinare gli sforzi e valorizzare la superiorità delle risorse in campo.
«L’errore strategico originale di Putin era di presumere che l’Ucraina fosse sufficientemente ostile da impegnarsi in attività anti-russe e incapace di resistere alla potenza dell’esercito russo», si legge su Foreign Affairs. «Durante la festa nazionale del 9 maggio – prosegue Freedman – non c’era molto da festeggiare a Mosca. Erano circolate voci su una mobilitazione generale per rimpolpare l’esercito, ma non se n’è fatto nulla: una mossa del genere sarebbe stata profondamente impopolare in Russia, ci sarebbe voluto troppo tempo per portare coscritti e riservisti al fronte, e la Russia avrebbe comunque dovuto affrontare una cronica carenza di attrezzature».
Dopo i primi tre mesi di conflitto, molti osservatori hanno iniziato a notare che la Russia era rimasta impantanata in una guerra impossibile da vincere, ma che non osava perdere. I governi occidentali e alti funzionari della Nato hanno cominciato a parlare di un conflitto che potrebbe continuare per mesi, e forse anni, a venire.
«Dipenderà molto dalla capacità dei comandanti russi di continuare a combattere con forze esaurite e morale basso, e anche dalla capacità dell’Ucraina di passare da una strategia difensiva a una offensiva. O forse Putin a un certo punto vedrà che conviene chiedere un cessate il fuoco in modo da poter incassare i guadagni realizzati all’inizio della guerra, anche se ciò significherebbe ammettere il fallimento», scrive Freedman su Foreign Affairs.
Non sempre la guerra porta con sé degli insegnamenti, ma il comando russo ha dimostrato cosa può accadere quando non si riescono a inserire tutti i fattori nei propri calcoli. Analisti e strateghi militari studieranno la guerra in Ucraina come esempio dei limiti del potere militare, cercando spiegazioni sul perché una delle forze armate più forti e più grandi del mondo, e con esperienza di combattimento recente e di successo, ha vacillato così malamente.
«La guerra di Putin in Ucraina – è la conclusione dell’articolo di Foreign Affairs – è soprattutto l’esempio di un fallimento del comando supremo. Il modo in cui vengono fissati gli obiettivi e le guerre lanciate dal comandante in capo modella ciò che segue. Gli errori di Putin sono stati quelli tipici dei leader autocratici che arrivano a credere alla propria propaganda: si fidava troppo delle sue forze armate, non si rendeva conto che l’Ucraina rappresentava una sfida su una scala completamente diversa dalle precedenti operazioni in Cecenia, Georgia e Siria, faceva anche affidamento su una struttura di comando rigida e gerarchica che non era in grado di assorbire e adattarsi alle informazioni da terra e, soprattutto, non consentiva alle unità russe di rispondere rapidamente al mutare delle circostanze».