Pep Guardiola, insomma, ha iniziato la sua carriera in maniera contro-intuitiva: è partito vincendo, sollevando al cielo alcuni tra i trofei più importanti e ambiti del mondo. E per di più l’ha fatto indossando la maglia di un club che gli ha condizionato e cambiato la vita molto prima di quegli incredibili successi, che ha costruito la sua identità di calciatore e di essere umano, ha determinato la sua visione del calcio, del mondo, della società. E infatti durante la festa per la vittoria di Wembley, di fronte a un milione di persone in estasi, Pep si affaccia dal balcone del palazzo della Generalitat – la sede degli uffici governativi della Catalunya – e dice la frase «ciuta dans de Catalunya, ja la tenim aquí», ovvero “cittadini di Catalogna, adesso la coppa è qui”, riprendendo in parte le parole di Josep Tarradellas, ex presidente della Catalogna costretto a rifugiarsi in Francia durante il franchismo e tornato a Barcellona nel 1977 – nel suo primo discorso dopo l’esilio, Tarradellas disse «ciutadans de Catalunya, ja sóc aquí».
Guardiola, però, non ha solo vinto. L’ha fatto da protagonista assoluto, ha giocato la finale di Coppa dei Campioni con il numero dieci stampato sulle spalle quando siamo ancora nell’era delle maglie non personalizzate, delle maglie senza nome, dei numeri fissi in ogni partita, dall’uno all’undici, e in quest’era la prassi vuole che la casacca numero dieci venga assegnata al giocatore più fantasioso della squadra, una seconda punta, un raffinato trequartista – del resto siamo nel tempo di Baggio, Gullit e Mancini, Maradona ha solo trentun anni e gioca al Siviglia, Zico si è trasferito in Giappone ma è ancora in attività, Platini ha smesso da quattro anni.
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Pep è un riferimento continuo, è l’uomo deputato a ricevere il pallone dai centrali difensivi e ad avviare la manovra; si muove e agisce soprattutto nella propria trequarti, perché Cruijff vuole che i giocatori più importanti della squadra stiano dietro. «Se si costruisce male da dietro, i palloni arrivano male avanti agli attaccanti. Un buon passaggio, insomma, può definire il resto dell’azione. E chi sa farlo bene è un calciatore che è capace di far giocare meglio tutti i suoi compagni». In questa intervista, rilasciata durante i suoi primi anni da professionista, Guardiola parla in generale, senza fare nomi, ma evidentemente parla di sé stesso, del suo ruolo nella squadra blaugrana. Una squadra che, in coincidenza con il suo esordio e la sua affermazione, diventa un riferimento globale per la qualità del gioco, per la pura espressione estetica, e ovviamente anche per le vittorie in serie: dopo la Liga del 1991 e il doblete Liga-Coppa dei Campioni del 1992, arrivano altri due titoli nazionali, conquistati entrambi con degli incredibili rovesci nell’ultima partita – ai danni del Real Madrid e del Deportivo La Coruña.
Poche settimane dopo la vittoria di Wembley, Pep vive un’altra esperienza molto potente, di grande valore storico: la vittoria della medaglia d’oro olimpica, la prima nella storia della Nazionale spagnola, per di più ai Giochi disputati proprio a Barcellona – un’edizione resa indimenticabile dall’inno opera-pop registrato nel 1988 da Montserrat Caballé e Freddie Mercury, dalla prima presenza ai Giochi dei professionisti Nba nella squadra di basket degli Usa, che formano il cosiddetto Dream Team, dalle imponenti opere di riqualificazione che abbelliscono la città, trasformandola nella seducente meta turistica che conosciamo oggi, segnandone la definitiva rinascita urbana e sociale e culturale dopo gli anni del franchismo.
A dispetto di tutte queste storie così significative, Guardiola ricorderà in maniera agrodolce l’avventura olimpica: «Sono stato un completo idiota: il ritiro con la Nazionale era a Palencia, nel Nord della Spagna, a 700 km da Barcellona. In quei giorni non feci nessuno sforzo per integrarmi con i miei compagni, non mostrai la solidarietà necessaria per essere parte di una squadra, di un gruppo. Solo dopo, quando abbiamo iniziato a giocare e a vincere le partite, sono riuscito a fare amicizia con i ragazzi che avrebbero formato la Nazionale spagnola nel decennio successivo, gente come Abelardo, Luis Enrique, Alfonso e Kiko». L’oro arriva al termine di una bellissima finale in cui la Rojita batte per 3-2 la Polonia. Guardiola riceve anche il Trofeo Bravo del Guerin Sportivo, una sorta di Pallone d’Oro per il miglior calciatore europeo Under 21. I problemi di integrazione e interazione vissuti quando viene convocato nella rappresentativa olimpica sono il prologo a un rapporto piuttosto contraddittorio con la Nazionale maggiore.
L’esordio arriva pochi mesi dopo il successo di Barcellona (14 ottobre 1992, Irlanda del Nord-Spagna 0-0), ma fino al 2001, l’anno dell’ultima gara disputata, le presenze con la Roja saranno appena 47, a causa di alcuni gravi infortuni – che gli faranno saltare, tra l’altro, i Mondiali 1998 – ma anche di diversi periodi negativi, per esempio il biennio 1994-96, in cui Guardiola non viene utilizzato dal ct Javier Clemente. Uno dei suoi allenatori nella Roja, José Antonio Camacho (ct della Spagna dal 1998 al 2002) parlerà così, in seguito, di Pep: «Era come se fosse un mistico: era sempre molto silenzioso, vestiva di nero, rifletteva su tutte le cose e le analizzava costantemente. Si poneva e poneva troppe domande: perché abbiamo vinto? Perché abbiamo perso? Perché in quell’occasione abbiamo giocato la palla in questo modo? Era davvero ossessivo, o meglio: era ossessionato dal calcio». Inevitabile pensare che questo modo di vedere e vivere il gioco fossero una conseguenza della sua identificazione totale con Cruijff, e poi dopo della sua immersione nel mondo enorme – e perciò ingombrante – del Barcellona.
È un discorso tecnico e calcistico, certo, ma questo distacco ha anche una componente politica, in realtà: nel 2004, mentre gioca in Qatar, Pep dirà in un’intervista che «le leggi ci dicevano di dover giocare con la Nazionale spagnola perché quella catalana non è legittimata a giocare competizioni internazionali. Io giocavo nel la Liga spagnola, mi convocavano e dovevo rispondere. Personalmente ero felice di rispondere alle convocazioni, però non posso nascondere quello che sento e che amo. E quindi devo dire di sentirmi molto legato al mio paese, la Catalogna, un paese che possiede una sua lingua da ottocento anni».
“Pep Guardiola, il calcio come rivoluzione infinita”, di Alfonso Fasano, (66thand2nd), 304 pagine, 17 euro