Figure della disunioneDi che cosa parliamo quando parliamo di “ma di cosa stiamo parlando?”

È una domanda retorica con la natura dell’arma contundente. Più che a coinvolgere l’uditorio, serve a dileggiare l’interlocutore. Né va meglio con l’abitudine di martellare l’interlocutore con una sfilza di “Punto!”, che sancisce sonoramente lo strenuo rifiuto di ogni possibilità di dialogo

di Andre Hunter, da Unsplash

“Ma di cosa stiamo parlando?”. Occhi spiritati, giugulari gonfie, mano “a tulipano” (“a pigna”, “a borsa” ecc.: cfr. “Linguaccia mia” di lunedì scorso) ondeggiante su e giù: nei dibattiti pubblici è il momento topico, il punto di non ritorno. Da lì in poi i duellanti se lo rinfacceranno a vicenda, in un crescendo di aggressività, e il confronto, se mai c’è stato, sarà definitivamente sommerso nel caotico accavallarsi di toni esasperati. Più contagioso di omicron 5, sgradevole, irritante, più una locuzione interiettiva che una domanda vera e propria formulata per sapere, “Ma di cosa stiamo parlando?” appartiene tecnicamente alla categoria delle domande retoriche, quelle che non sono enunciate per ottenere una risposta, perché la risposta è già nella testa di chi pone la domanda, in genere suggerita dall’intonazione della voce. Una “figura della comunione”, secondo la definizione di Chaïm Perelmane Lucie Olbrechts-Tyteca (Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi 2013), ossia una di quelle figure «con le quali l’oratore si sforza di far partecipare attivamente l’uditorio alla sua esposizione, prendendolo a parte di essa, sollecitando il suo concorso».

In questo caso, tuttavia, ciò che vuole significare chi pone la (finta) domanda è così chiaro che anche il punto interrogativo potrebbe scomparire, sostituito da un più assertivo, insolente, quando non addirittura brutale punto esclamativo. E il senso che si vuole (non suggerire, ma) sbattere in faccia all’interlocutore o agli interlocutori (e indirettamente al pubblico che fa il tifo) è un più volgare ma tutto sommato meno indisponente “Ma che cazzo stai/state dicendo?”.

Sotto l’apparenza della domanda retorica si cela la reale natura di un’arma contundente, agitata senza risparmio in quei dibattiti concitati di cui si pascono i talk-show e sconsideratamente anche qualche giornale, nel vano tentativo di inseguire il chiasso inconcludente dei social (con il risultato di allontanare chi non ama il chiasso, senza conquistare chi predilige quello più chiassoso dei social – ma tant’è). Il guaio è che per emulazione l’arma impropria viene ormai brandita anche nelle discussioni private, e non è raro vederla spuntare tra le pietanze al desco familiare.

Con il punto interrogativo dell’affettata incredulità, con quello esclamativo del manifesto disprezzo o con i tre puntini dell’ironico dileggio, “Ma di cosa stiamo parlando” è un modo di delegittimare gli argomenti dell’interlocutore, derubricati a vane farneticazioni o capziose argomentazioni, e di ribadire la propria come l’unica inoppugnabile ragione. Altro che «far partecipare attivamente, sollecitare il concorso» dell’uditorio e dell’interlocutore: da “figura della comunione” la domanda retorica si converte in “figura della disunione”, del rifiuto del confronto e della irrimediabile incomunicabilità che rinchiude chi ne fa uso nella sua tronfia autoreferenzialità.

A sigillare definitivamente questa rabbiosa deriva solipsistica, tra un “Ma di cosa stiamo parlando” e l’altro, è una martellante strategia verbale che letteralmente “punteggia” la discussione (quel che ne rimane), con la ripetizione a intervalli regolari della parola “Punto!” (che non è un punto esclamativo ma si pronuncia come se lo fosse). Il più piccolo dei paragrafemi è un ordigno insidioso da maneggiare con cautela: nel galateo dei social, in particolare di Whatsapp, concludere un messaggio con il punto è considerato un segno di maleducazione (“passive aggressive” lo definisce la studiosa canadese Gretchen McCulloch, autrice nel 2019 del saggio Internet: Understanding the New Rules of Language, Riverhead Books). Quando dalla rappresentazione su carta o sullo schermo di un dispositivo elettronico passa alla riproduzione vocale, il punto diventa un proiettile sparato al cuore della conversazione: in genere in capo a frasi secche, prevalentemente riassuntive di quanto già espresso e pronunciate con tono veemente.

Deprecabile abitudine non solo italica (“Full stop” non è infrequente nelle frasi-proclama in lingua inglese), questo “Punto!” è solo apparentemente l’evoluzione meno perentoria del “Punto e basta!” con cui un tempo (ora per la verità sempre meno) un genitore negava qualche cosa al figlio adolescente troncandone le insistenze. Ed è sicuramente più scoraggiante del “Punto e a capo” in via di estinzione, che almeno non tagliava i ponti ma in quell’a capo conteneva una possibilità di nuovo inizio, di prosecuzione dando per assodate, o semplicemente accantonate, alcune questioni. Il semplice repulsivo “Punto!”, che rimbalza da una bocca all’altra, sancisce sonoramente lo strenuo rifiuto di ogni possibilità di dialogo e indirizza il confronto su binari paralleli destinati a non incrociarsi mai, in un cacofonico “contrappunto” che di virtuosistico non ha nulla, ma unicamente rifrange la sterile albagia dei contendenti.

Al di là del passeggero divertimento per lo spettacolo indecoroso – che in piccole dosi a qualcuno potrà pure piacere, come possono piacere certi sadici show televisivi dove dei poveracci vengono messi alla berlina col pretesto di raccontare scombiccherati casi umani o di valorizzare un qualche loro supposto talento – di questi assordanti monologhi degni dell’attenzione di un redivivo Asperger agli eventuali spettatori che cosa potrà realmente interessare? Questi sì che potrebbero domandarlo: ma di cosa state parlando?

Un pensiero per Luca Serianni, il grande linguista tragicamente scomparso nei giorni scorsi, che è stato e rimarrà un imprescindibile punto di riferimento per questa rubrica.