Io, RobotLa scomparsa dei posti di lavoro e le conseguenze economiche dell’intelligenza artificiale

Nel suo ultimo libro (pubblicato dal Saggiatore) Martin Ford, futurologo e fondatore di un‘azienda di software nella Silicon Valley, passa in rassegna gli sconvolgimenti (e le opportunità) che la nuova tecnologia porterà alle nostre società, con le evidenti ricadute sul piano politico

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Nel mio libro del 2017 Il futuro senza lavoro sostenevo che i progressi nei campi dell’intelligenza artificiale e della robotica avrebbero finito per distruggere moltissimi lavori che tendevano a essere routinari e prevedibili, portando potenzialmente a un aumento delle diseguaglianze e alla disoccupazione strutturale. Quando ho iniziato a scrivere questo libro, nel gennaio 2020, pensavo che il compito principale che mi avrebbe atteso in questo capitolo sarebbe stato difendere quella tesi di fronte alla più lunga ripresa economica dalla Seconda guerra mondiale, segnata da un tasso di disoccupazione principale di appena il 3,6%.

Inutile dire che la pandemia da coronavirus e la conseguente battuta d’arresto delle economie negli Stati Uniti e in tutto il mondo ci hanno condotto in una realtà economica completamente nuova. Ciò nonostante, credo che le argomentazioni che intendevo avanzare prima della crisi rimangano molto rilevanti. Anche in un momento di disoccupazione eccezionalmente bassa, ritengo che le tendenze di cui ho discusso in Il futuro senza lavoro rimangano saldamente in gioco, e che la relativa prosperità suggerita dagli indicatori economici negli anni precedenti la crisi attuale fosse, almeno in parte, un’illusione.

Sulla scia della pandemia, la tendenza a una maggiore automazione del lavoro potrà essere amplificata ed esercitare conseguenze drammatiche mentre attendiamo con impazienza di riprenderci dall’attuale disastro economico.

Immaginatevi di essere un economista statunitense nel 1965. Osservando l’economia e il mercato del lavoro nel vostro paese, riscontrereste che circa il 97% degli uomini tra i 25 e i 54 anni, abbastanza grandi da avere ultimato gli studi ma troppo giovani per andare in pensione, o sono occupati o sono attivamente alla ricerca di un lavoro. Un dato che corrisponderebbe alle vostre aspettative e vi sembrerebbe del tutto normale. Supponiamo ora che appaia un viaggiatore temporale proveniente dal futuro e che vi dica che nel 2019 solo l’89% circa degli uomini in età lavorativa primaria si troveranno all’interno della forza lavoro, e che entro il 2050 la percentuale di uomini americani in questa fascia di età completamente estromessi dal mercato del lavoro potrebbe crescere fino a un quarto o addirittura un terzo.

È molto probabile che trovereste questa prospettiva allarmante.

Forse vi potrebbe attraversare la mente l’espressione «disoccupazione di massa». Di certo vi chiedereste cosa ne sarebbe di tutti quegli ex lavoratori. Il viaggiatore temporale, però, vi informerebbe che il tasso di disoccupazione principale riportato dal governo per il 2019 è significativamente inferiore al 4% e che i tassi d’interesse sono più bassi rispetto al 1965. Anzi, entrambi i dati, sottolineerebbe il visitatore dal futuro, sono vicini ai minimi storici. Per di più vi verrebbe detto che la Federal Reserve, anziché pianificare l’aumento dei tassi di interesse, mostra l’intenzione di abbassarli ulteriormente nel tentativo di rilanciare l’economia.

Probabilmente a un economista della seconda metà del xx secolo tutte queste informazioni apparirebbero sorprendenti, o addirittura contraddittorie. Come vedremo in questo capitolo, l’economia e il mercato del lavoro negli Stati Uniti, così come in molti altri paesi industrializzati, stanno operando in modi che sembrano sfidare numerosi dettami e presupposti che un tempo sembravano essere solidamente supportati da prove empiriche.

Nelle pagine del mio libro Il futuro senza lavoro ho sostenuto che a guidare questi cambiamenti sia in larga misura l’accelerazione dei progressi nella tecnologia dell’informazione. Abbiamo conosciuto una lunga lista di innovazioni chiave – l’avanzata dell’automazione nelle fabbriche, la rivoluzione dei personal computer, internet, l’ascesa del cloud computing e della tecnologia mobile – che hanno messo in moto cambiamenti nel corso di decenni. Il più importante impatto tecnologico, tuttavia, si trova ancora nel futuro. L’ascesa dell’intelligenza artificiale ha il potenziale per capovolgere sia il mercato del lavoro sia il sistema economico nel suo complesso in modi molto più drammatici e carichi di conseguenze di quanto mai visto in precedenza.

Stiamo assistendo alle avvisaglie di una rivoluzione e abbiamo buone ragioni per essere preoccupati. Le trasformazioni verificatesi solo negli ultimi dieci o vent’anni hanno giocato un ruolo cruciale in sconvolgimenti politici di portata inimmaginabile, lacerando il tessuto stesso della società. Alcuni studi, per esempio, hanno mostrato una correlazione diretta tra le regioni degli Stati Uniti più esposte agli effetti dell’automazione del lavoro e il favore incontrato da Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016.

Prima che la pandemia da coronavirus sconvolgesse le nostre vite, si dedicava maggiore attenzione a un’altra emergenza sanitaria che ha devastato gli Stati Uniti: l’epidemia del consumo di oppiacei, nella quale tendevano a mostrarsi in prima linea le aree in cui la classe media ha conosciuto una più grave crisi occupazionale.

Se i cambiamenti che abbiamo visto finora impallidiscono di fronte a quanto potrebbe attenderci, c’è un rischio reale di futuri sconvolgimenti sociali ed economici su una scala senza precedenti, così come l’ascesa di demagoghi politici ancora più pericolosi che prospereranno grazie alla paura che accompagnerà di certo un panorama in così rapido cambiamento.

La realtà è che l’intelligenza artificiale si dimostrerà un’arma a doppio taglio in termini di impatto economico. Da un lato, sarà probabile che aumenti la produttività, renda più accessibili prodotti e servizi e consenta un’innovazione tale da migliorare la vita a tutti. L’IA ha il potenziale per creare un valore economico indispensabile mentre cerchiamo una via di uscita dal profondo abisso in cui si trova ora la nostra economia. D’altro canto, è praticamente certo che eliminerà o dequalificherà milioni di posti di lavoro, portando la diseguaglianza economica a livelli ancora più elevati. Oltre alle implicazioni sociali e politiche della disoccupazione e alla diseguaglianza sempre crescente, c’è un’altra importante conseguenza economica: una vivace economia di mercato dipende dal fatto che un vasto numero di consumatori possa acquistare prodotti e servizi. Se questi consumatori non hanno posti di lavoro, e quindi reddito, come creeranno la domanda necessaria a sostenere una continua crescita economica?

IA e automazione del lavoro: stavolta è diverso?

La paura che le macchine possano un giorno soppiantare i lavoratori e produrre disoccupazione strutturale, a lungo termine, ha una storia che risale quanto meno alle rivolte luddiste di Nottingham più di duecento anni fa. Nei decenni successivi l’allarme è stato lanciato a più riprese. Negli anni cinquanta e sessanta, per esempio, era assai intensa la preoccupazione che l’automazione industriale avrebbe presto tolto il lavoro a milioni di operai, portando a una disoccupazione diffusa. Finora, tuttavia, la storia mostra che l’economia si è generalmente adeguata ai progressi tecnologici creando nuove opportunità occupazionali, e che questi nuovi lavori richiedono spesso maggiori competenze e vengono retribuiti con salari più alti.

Uno degli esempi storici più estremi di perdita di posti di lavoro causata dalla tecnologia – e un caso citato spesso dagli scettici sul fatto che l’avanzata tecnologica possa mai rappresentare un problema per l’occupazione – riguarda la meccanizzazione dell’agricoltura negli Stati Uniti. Alla fine dell’Ottocento, circa la metà dei lavoratori americani era impiegata nel settore primario. Oggi il loro numero è compreso tra l’1 e il 2%. L’avvento di trattori, mietitrebbie e altre tecnologie agricole polverizzò in modo irreversibile milioni di posti di lavoro.

Questa transizione comportò una notevole disoccupazione a breve e medio termine quando gli agricoltori senza lavoro emigrarono nelle città alla ricerca di un impiego in fabbrica. Alla fine, tuttavia, i lavoratori disoccupati furono assorbiti da un settore manifatturiero in crescita e, nel lungo periodo, i salari medi così come la prosperità complessiva conobbero un incremento spettacolare. In seguito, le fabbriche furono automatizzate o trasferite all’estero e i lavoratori dovettero cambiare di nuovo settore, questa volta spostandosi nei servizi. Oggi quasi l’80% della forza lavoro americana è impiegata nelle industrie dei servizi.

La domanda chiave è se la rivoluzione nel mercato del lavoro come effetto dell’impatto dell’intelligenza artificiale porterà a un risultato simile. L’IA rappresenta solo un altro esempio di innovazione che consente un risparmio di manodopera, come le tecnologie agricole che hanno trasformato il settore primario, o si tratta di qualcosa di fondamentalmente diverso? La mia tesi è che l’ia sia effettivamente diversa, e per la ragione che sta alla base di questo libro: l’intelligenza artificiale è una tecnologia sistemica di uso generale non dissimile dall’elettricità, e perciò finirà per attraversare e invadere ogni aspetto della nostra economia e della nostra società.

Storicamente, le rivoluzioni tecnologiche del mercato del lavoro hanno avuto la tendenza a incidere prima su un settore che sugli altri. La meccanizzazione agricola ha distrutto milioni di posti di lavoro, ma un settore manifatturiero in crescita si è reso disponibile ad assorbire quei lavoratori. Allo stesso modo, con l’automatizzazione della produzione e la delocalizzazione delle fabbriche in paesi a basso salario, unsettore dei servizi in rapida ascesa ha fornito opportunità a chi si è trovato senza impiego. Al contrario, l’intelligenza artificiale eserciterà un impatto su ogni settore dell’economia in maniera più o meno simultanea.

Ancora più importante è il fatto che questo includerà il settore dei servizi e i lavori impiegatizi che ora impegnano la stragrande maggioranza della forza lavoro statunitense. I tentacoli dell’ia finiranno per raggiungere e trasformare praticamente ogni settore esistente, e qualunque nuova industria sorgerà in futuro incorporerà molto probabilmente le più recenti innovazioni di ia e robotica fin dal loro apparire.

In altre parole, sembra molto improbabile che possa in qualche modo materializzarsi un settore completamente nuovo, con decine di milioni di nuovi posti di lavoro, in grado di assorbire tutti coloro che hanno perso l’impiego in seguito alla crescita dell’automazione nelle industrie esistenti. Piuttosto, le industrie del futuro saranno costruite sulle fondamenta della tecnologia digitale, della scienza dei dati e dell’intelligenza artificiale, e di conseguenza non potranno semplicemente generare un gran numero di posti di lavoro.

Un secondo punto riguarda la natura delle attività intraprese dai lavoratori. È ragionevole stimare che circa la metà della nostra forza lavoro sia impegnata in occupazioni di natura in gran parte routina­ria e prevedibile.

Con questo non mi riferisco ad attività «meccaniche» ma semplicemente che questi lavoratori tendono ad affrontare più volte lo stesso insieme basilare di compiti e sfide. In altre parole, l’essenza del lavoro, o quanto meno una grande porzione dei compiti che lo costituiscono, è sostanzialmente racchiusa in uno storico di dati che riflettono il comportamento del lavoratore nel tempo. Tali dati finiranno con il rappresentare una ricca risorsa per gli algoritmi di machine learning che si potranno sguinzagliare per capire come automatizzare molte di queste attività.

In altre parole, stiamo affrontando un futuro in cui quasi tutti i tipi di lavoro routinario e prevedibile alla fine svaniranno, e in tutta probabilità ciò si tradurrà in una sfida particolarmente difficile per i lavoratori più adatti a tale lavoro. Per tutto il XX secolo lo sviluppo di tecnologie capaci di fare risparmiare manodopera ha indotto i lavoratori a trasferirsi in settori diversi, ma la maggior parte di essi ha continuato a svolgere un lavoro largamente routinario. Immaginate il passaggio dalla condizione del lavoratore agricolo agli inizi del Novecento a quella dell’operaio in una catena di montaggio in fabbrica nel 1950 per arrivare al cassiere che oggi scansiona i codici a barre in un supermercato.

Sono lavori molto diversi in settori completamente diversi, ma tutti definiti da compiti in gran parte routinari e prevedibili. A questo giro non ci saranno molti lavori di routine in qualche nuovo settore in grado di accogliere i disoccupati. Anzi, i lavoratori dovranno affrontare un tipo completamente diverso di transizione a un lavoro fondamentalmente non routinario, che spesso può richiedere qualità come la capacità di costruire relazioni efficaci con altri, lo svolgimento di analisi non routinarie o la ricerca di soluzioni creative.

Ammesso che un numero sufficiente di tali posti di lavoro sia disponibile, alcuni lavoratori riusciranno a superare indenni questa transizione, ma molti altri probabilmente incontreranno delle difficoltà.

In altre parole, penso che ci troviamo di fronte a uno scenario in cui una significativa frazione della nostra forza lavoro finirà per rischiare di essere estromessa dal mercato del lavoro. Ma esistono prove che sia successo davvero qualcosa di simile? Dopotutto, il tasso di disoccupazione prima dello scoppio della pandemia da coronavirus era ben al di sotto del 4%.

 

Da “Il Dominio dei robot” di Martin Ford, Il Saggiatore, 2022, 320 pagine, 24 euro

 

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