Una sera conosco questo tizio, un bassista di nome Joe: un tipo tarchiatello, tutto muscoletti con dei dreadlock rossicci, che suona in una band assurda, i Green Jello. Joe è più grande di me e appena cominciamo a frequentarci io divento un po’ il suo fratellino minore.
Così, quando gli dico che sono appena rimasto senza lavoro, mi tranquillizza subito, prendendomi la testa in una morsa con il braccio: «Ti do una mano io. Al volo. Anzi, ci aiutiamo a vicenda. Sai disegnare?».
«Sì, Joe, disegno, faccio qualsiasi cosa, cazzo.»
Quindi mi porta in questa palazzina su La Brea Avenue. Un posto assurdo, tavoli su tavoli, con gente che disegna, light tables, quelli con la luce sotto, tutti a lavorare, corrieri FedEx che vanno e vengono, fogli enormi che vengono raccolti e portati via: sono entrato in un laboratorio di animazione.
A Joe consegnano un pacco di fogli, sembra una cosa quasi top secret, perché il pacco è sigillato, con il suo nome sopra. Torniamo a casa sua, dove lui ha il suo light table. Mentre apre il plico, mi spiega cosa devo fare.
«Io lavoro a questa serie di cartoni animati, è nuova ma sta andando benissimo, è per questo che stiamo impazzendo, da che eravamo venti persone adesso siamo in duecento. Quello che faccio io si chiama background cleanup. Dall’ufficio ci mandano questi fogli disegnati dagli animatori, okay? Loro fanno la stanza, gli ambienti, il background, e poi altri animatori ci rifanno sopra l’animazione dei personaggi, fotogramma per fotogramma. Ogni sera questa roba viene presa da un corriere aereo e mandata in Asia, perché lì l’acquisizione dei fotogrammi costa un quarto.»
Ancora non capisco, guardo questi fogli che sembrano una foresta di scarabocchi.
«Tu prendi il sotto, ti do solo il sotto a te, perché il sotto rimane fisso» prosegue Joe. «Come vedi i disegnatori vanno veloci e per fare il muro della stanza, il telefono, il divano di casa, il quadro appeso al muro, tracciano tre o quattro linee. Tu devi cancellare le linee brutte, trovare e rifare quelle giuste, quelle esatte.»
E mi spiega come si fa. Prende un righello e aggiunge: «Adesso ti insegno il tratto di Matt, che è il creatore della serie, perché facciamo così, copiamo il suo tratto», e mi insegna il tratto di questo Matt. «Per questa cosa prendo un tot di dollari all’ora, ma siccome c’ho le prove con la band, sono sicuro che se ne fai qualcuno tu, nessuno se ne accorge e i soldi vanno a te.»
Osservo meglio i fogli illuminati dalla luce sotto la superficie traslucida del tavolo, e vedo gli ambienti che dovrò correggere: sono buffi, con tutti gli oggetti fuori misura, un telefono enorme, un divanone stondato enorme, una tv enorme.
Su alcuni fogli lì accanto ci sono i personaggi: sono surreali, tutti gialli, uno ha la testa cilindrica con delle punte smussate sopra, che credo siano i capelli, non ho mai visto nulla del genere ma me ne innamoro subito.
«Alex, ti presento i Simpson» dice Joe.
Questa cosa va avanti per qualche settimana, poi Joe riprende a farla da solo, ma mi tranquillizza: «Io sto lavorando come scenografo in una casa di produzione che si chiama Propaganda Films, loro fanno videoclip, film, producono i più grossi videoclip che si fanno in America, e hanno sempre bisogno di gente che viene a fare lo sgobbino. Tu facevi cinema, no?, intendo la tua famiglia. Magari ti andrebbe di provare».
E da lì, così, casualmente, inizia la fase successiva della mia vita. Se Los Angeles per me era una porta oltre la quale trovare il mio destino, ora ce l’avevo davanti, spalancata.
da “Now, here, nowhere”, di Alex Infascelli, Harper Collins, 256 pagine, 18 euro