E se l’utilità della comunicazione fosse un gigantesco equivoco? Se lo scopo ultimo della comunicazione fosse la comunicazione stessa? Se ci decidessimo ad ammettere che tutti quelli che prima o poi danno interviste dicendo che hanno fatto tante cose meravigliose ma la gente non lo sa perché le hanno comunicate male, da Biden in giù, dicono una scemenza?
Ci pensavo leggendo le polemiche sulla copertina di Vogue America su cui compare Olga Zelenska (come si affretta a precisare l’intervistatrice Rachel Donadio, timorosa d’essere accusata di mancata schwa, «i cognomi si declinano secondo il genere, nelle lingue slave»; la mia slavista di riferimento mi dice che Zelenska è in realtà un femminile alla russa, e che all’ucraina andrebbe traslitterato Zalenska: mi perdonerete se, per semplicità, in questo articolo utilizzo la grafia di Vogue America, testata sicuramente in combutta con gli oligarchi russi).
Leggevo le polemiche, dicevo, e le trovavo abbastanza ridicole da entrambi i lati della questione. Proverò a riassumerle, ma prima una premessa.
Greta, Anton: vi sono vicina. Per dire: io è una vita che scrivo che il grande rimosso dei social è che la classe sociale esista, e quando Assia Neumann l’ha scritto su questo giornale Twitter l’ha acclamata come svelatrice di scomode verità. Non c’è niente di più fastidioso che sembrare la cugina cessa che frigna «ma io lo dico da prima» in un angolo, mentre la comunicazione (sempre lì si torna) altrui passa, e la tua no.
È per queste ragioni piccinamente autobiografiche che sono solidale con Greta Privitera che aveva intervistato la Zelenska, e Anton Kulakowskiy che l’aveva fotografata, per la copertina di due settimane fa di 7. Kulakowskiy non sarà Annie Leibovitz, ma la sua copertina con la Zelenska in abituccio da lady who lunches con sfondo di sacchi di sabbia alla finestra meritava almeno un’indignazione piccina picciò. E invece niente: come se l’inserto del Corriere non fosse mai uscito, e tutti a polemizzare sulla copertina del Vogue americano e quindi egemone (che poi il servizio fotografico l’hanno scattato per Vogue Ucraina, e giustamente Anna Wintour non l’ha trascurato).
Esaurita la premessa solidale, passerei ai due lati dell’indignazione, entrambi insopportabili.
Da una parte quelli: il paese è in guerra e tu ti metti in posa con gli stilisti nelle didascalie, ma non ti vergogni, sei proprio la moglie d’un attore comico che per beffa del destino si trova a fare il leader di guerra, sei una vanitosa, una frivola, una schifosa. (Essendo i polemisti non troppo sofisticati, non ho visto nessun: ah quindi in un paese che sarebbe sotto le bombe esiste un’edizione locale di Vogue, a noi non la si fa, è tutto falso, è tutt’una messinscena).
Dall’altra quelli che ci spiegano, in ordine sparso: che in tempo di guerra e di crisi la gente per tirarsi su compra rossetti (una volta avrebbero detto «le donne» invece che «la gente», ma oggi vogliono sembrare inclusivi); che su Vogue ci è stata persino la moglie di Assad; che se sei il genere di persona che compra i giornali patinati (sottinteso: una povera scema) e ci trovi in copertina Malala magari è la volta che impari qualcosa.
La questione è: a cosa serve, stare sulla copertina di Vogue? A niente, solo a stare sulla copertina di Vogue. Quindi hanno ragione quelli che accusano la moglie d’un tizio il cui paese viene bombardato d’essere così vanitosa da mettersi in posa come una modella? Certo che no: hanno tutti torto, come spesso accade.
Il fatto è che l’equivoco che la comunicazione ben fatta serva a qualcosa oltre che a sé stessa è tenace. Quando Hillary Clinton era candidata alle primarie democratiche contro Barack Obama, nel 2008, Anna Wintour le offrì la copertina. Hillary la rifiutò, avendo l’accortezza che Olena Zelenska non ha avuto: quella di non voler sembrare frivola.
Da allora, una leggenda dura a morire sostiene che Hillary perse le primarie perché Anna Wintour gliela giurò, e mise Barack Obama sulla copertina di Men’s Vogue. Ma pensare che sia andata così e non al contrario (Wintour lo mise in copertina perché Obama era il candidato più fotogenico di tutti i tempi, e lei fa giornali patinati per cui la fotogenia è tutto) è quantomeno ingenuo.
Nel 2016, Wintour fece il suo finora unico editoriale di esplicito sostegno elettorale, a Hillary Clinton contro Donald Trump: è servito a Hillary a vincere? Certo che no. La comunicazione non basta, anche quando è divina.
Nello spettacolo che sta portando in tour Chris Rock, c’è dio che appare a Hillary Clinton promettendole che vincerà la candidatura contro Obama. È un nero, ma non canta e balla, ti ho spianato la strada, devi fare solo una cosa: andare in campagna elettorale in tutti e cinquanta gli stati. Lei non ci va, e perde. Otto anni dopo, le appare di nuovo. «Sapete quant’è raro che dio appaia due volte alla stessa persona? È successo solo tre volte: con Mosè, con Noè, e con Hillary». Le dice ti ho messo contro uno che non può vincere, un conduttore di gare televisive coi capelli arancioni. Tu devi fare solo una cosa: andare a fare campagna elettorale in tutti e cinquanta gli stati. E niente, sappiamo già come finisce.
Possiamo permetterci di ammettere che la comunicazione non ha conseguenze sul piano pratico? Forse no. Quando i giornali riportano che la società di Chiara Ferragni nel 2021 ha avuto un utile di un milione e novecentomila euro – sei centesimi di euro per ognuna delle persone che la seguono su Instagram, 27 milioni e spicci di persone che la seguono per guardare i video buffi dei figli ma mai si comprerebbero i suoi pigiami d’acrilico – mica riportano questa cifra come prova che i cuoricini su cui tanto ci agitiamo non valgono niente, che la fama non vale niente, che la comunicazione non è una valuta spendibile.
Se cominciassimo a farlo, poi dovremmo dire che, se fai tante cose buone, non serve comunicarle: l’elettorato se ne accorge perché gli migliori la vita, non perché glielo dici; se scrivi un romanzo che funziona, come dimostrano mille casi da Stefania Auci in giù, quello vende pure se i recensori si svegliano dopo un anno; se fai pigiami belli, li compriamo anche se hai pochi follower.
Ma l’indicibile resta tale perché, se lo ammettessimo, il problema non sarebbe né di Biden né di Zelensky né di Chiara Ferragni: il problema sarebbe di noialtri che facciamo giornali, e ci troveremmo con le copertine vuote.