Il grande acceleratoreLa missione della scienza per arrivare al cuore della fisica

Le strade della ricerca, spiega Luca Amendola nel suo ultimo libro (il Mulino), sono tortuose e imprevedibili. Le grandi intuizioni spesso nascono al crocevia di interessi ed esigenze differenti. Così è la storia dell’austriaco Bruno Touschek e delle sue incredibili idee

di Michael Dziedzic, da Unsplash

L’epopea degli acceleratori inizia con l’incontro tra un norvegese visionario e un austriaco per metà ebreo nella Germania della Seconda guerra mondiale, coinvolti loro malgrado nella ricerca spasmodica de “il raggio della morte”.

È una storia poco nota che emerse nella sua interezza solo pochi anni fa grazie anche alla ricostruzione certosina di Luisa Bonolis e Giulia Pancheri, dal cui lavoro attingo a piene mani. Una storia in cui scienza e coscienza, vita e morte, sono entangled in modo inestricabile.

Nel 1928, il giovane Rolf Widerøe, rampollo della buona borghesia norvegese, pubblica un articolo in cui propone di accelerare elettroni mediante potenti campi elettromagnetici per studiarne le interazioni con gli atomi. Nessuno lo nota, Widerøe lascia la ricerca e trova impiego presso una società di macchinari elettrici, prima a Berlino, poi a Oslo. Nel 1939 scoppia la guerra. L’anno dopo la Norvegia viene occupata dalla Germania, i contatti con gli USA sono interrotti, ma Widerøe s’imbatte nell’ultima copia, prima dell’embargo, della prestigiosa rivista americana di fisica, la «Physical Review». Un articolo di Donald Kerst presenta il progetto di un acceleratore circolare e cita anche il suo vecchio e quasi dimenticato lavoro. Widerøe ritorna sulla sua idea, ci lavora sopra e pubblica un articolo in cui propone un nuovo schema per incrementare la potenza e migliorarne la tecnologia.

Nel frattempo, a duemila chilometri di distanza, un giovane studente viennese, Bruno Touschek, si rende conto che sua madre, morta quando lui aveva dieci anni, oltre al gusto artistico che Bruno riverserà in seguito in centinaia di argute caricature nel mondo dei fisici, gli aveva lasciato un’altra eredità: quella della discendenza ebraica. Espulso dall’università per le leggi razziali, Touschek continua a studiare con i libri che gli fanno arrivare di nascosto dalla biblioteca. Un docente lo mette in contatto con Arnold Sommerfeld, uno dei grandi maestri della fisica tedesca, che ebbe tra i suoi studenti una mezza dozzina di premi Nobel, il quale gli suggerisce di continuare gli studi semiclandestini ad Amburgo, presso professori di sua fiducia. Touschek accetta e dopo poco trova un posto di lavoro, prima ad Amburgo, sempre grazie a Sommerfeld, poi a Berlino presso un’industria elettromeccanica. Siamo nel 1943: un ebreo nella tana del lupo, in piena guerra.

Qui si produce un’imprevedibile concatenazione di circostanze, universi paralleli che s’incrociano. La Luftwaffe, l’aviazione tedesca, vuole studiare la possibilità di focalizzare potentissimi raggi X sugli aerei nemici, mettendone fuori uso i motori o perfino uccidendone i piloti: “il raggio della morte”. Una contraerea silenziosa e dalla portata molto maggiore delle armi convenzionali. Gli storici non hanno mai veramente chiarito quanto questo progetto fosse realistico, o fosse piuttosto pura propaganda, o una sorta di balla spaziale per farsi belli col regime mentre la guerra si faceva sempre più dura. Conoscendo la sua expertise nel campo dell’accelerazione delle particelle, Widerøe viene convocato in Germania e indotto, diciamo pure costretto, a collaborare, anche perché suo fratello Viggo, un pilota dell’aviazione civile, era stato arrestato come partigiano antinazista. Qui incontra Touschek e nasce una lunga collaborazione e amicizia.

Obiettivo: costruire il primo acceleratore europeo di elettroni ad alta potenza, che già Kerst aveva battezzato betatron. Ma ognuno aveva la sua agenda. I due scienziati volevano studiare la fisica delle collisioni. L’industria elettromeccanica voleva commercializzare il betatron a scopi medici: gli elettroni o anche gli intensi raggi X generati dai loro impatti potevano avere, come ebbero, applicazioni nella cura dei tumori. L’esercito lo voleva per abbattere i piloti della Royal Air Force e rovesciare le sorti compromesse del conflitto. La medesima tecnologia al servizio della vita e della morte. Forse mi lascio influenzare troppo da questa trama cinematografica, ma in una foto di Touschek di alcuni anni dopo, volto affilato e sigaretta in mano, rivedo l’Humphrey Bogart di Casablanca.

Arriviamo alla primavera del 1945. L’esercito tedesco è in rotta su tutti i fronti. Gli esperimenti vengono interrotti, i macchinari segreti vengono fatti sparire o smontati. Una mattina, agenti della Gestapo si presentano a casa di Touschek: è arrestato per spionaggio. Le accuse: «Leggeva riviste straniere e metteva i ritratti di Hitler a testa in giù». Mentre viene trasferito mediante marce forzate da Amburgo a Kiel, Bruno cade per la debolezza. Un soldato delle SS gli spara, lasciandolo per morto ai bordi della strada. Touschek, ferito non gravemente, riesce a raggiungere un ospedale. È arrestato nuovamente, ma ormai tutto è allo sbando. Viene liberato il 30 aprile, lo stesso giorno del suicidio di Hitler. Tre giorni dopo gli Alleati arrivano ad Amburgo. Ancora quattro giorni e la Germania capitola.

Rolf Widerøe torna in Norvegia, affronta senza troppi danni un processo per collaborazionismo. Decide comunque di lasciare il suo paese e continuare a lavorare in Svizzera sugli aspetti medici degli acceleratori, arrivando a detenere circa 200 brevetti. L’azienda per cui lavora prospera e costruisce fino agli anni ’70 la maggior parte dei betatron per uso medico in Europa e altrove, incluso uno dall’imperdibile nome di Asklepitron. Anche il fratello Viggo sopravvive alle carceri naziste e torna a guidare la sua piccola compagnia aerea, fondata anni prima insieme a Rolf e a un altro fratello deceduto proprio pilotando un aereo della compagnia. La Widerøe Airlines esiste tuttora, e vola da Oslo verso tutto il grande Nord.

Touschek, nel frattempo, finisce i suoi studi prima a Göttingen, dove lavora con Heisenberg, e poi a Glasgow in Scozia. Nel 1952 visita l’università di Roma, dove Enrico Fermi aveva lasciato un gruppo di giovani ed entusiasti scienziati ansiosi di riprendere l’avventura interrotta dai tempi dei ragazzi di via Panisperna, il vecchio istituto dove era stata innescata la prima reazione nucleare. Touschek conosceva e amava Roma, dove veniva a volte a visitare una zia, e decide di accettare l’offerta di un posto di ricercatore all’INFN. Nel giro di pochi anni, la sua esperienza con gli acceleratori si sarebbe rivelata della massima utilità.

Nei primi anni del dopoguerra, l’esigenza di accelerare le particelle elementari era avvertita ovunque, e per le stesse ragioni già viste: per scopi militari, medici, e di ricerca. Dallo scontro tra due particelle possono scaturire molte diverse combinazioni, purché siano rispettate le solite regole di conservazione di energia, momento, carica elettrica, numero fermionico. La legge più importante è che nulla è gratis: per produrre particelle, occorre spendere energia uguale o superiore alla loro massa. L’energia che l’acceleratore impartisce alle particelle va interamente nella loro energia cinetica, che cresce con la velocità. Se dallo scontro tra elettroni e positroni vogliamo avere una qualche probabilità di ottenere, per esempio, una coppia muone/ antimuone, duecento volte più massivi dell’elettrone, gli elettroni/positroni dovranno acquisire energia cinetica pari o superiore alla massa dei muoni, e quindi viaggiare quasi alla velocità della luce. Più energia cinetica investiamo, maggiore sarà lo spettro di particelle che possiamo estrarre dalla collisione. Un acceleratore è una macchina che converte energia in materia. Chi dispone dell’energia maggiore può scoprire per primo nuove particelle.

Per raggiungere sufficiente energia occorre accelerare le particelle con fortissimi campi elettromagnetici prodotti da generatori disposti lungo il percorso. Ci sono due strade: si possono costruire lunghi percorsi rettilinei (acceleratori lineari), oppure si fanno orbitare le particelle lungo degli anelli, accelerandole progressivamente fino all’energia richiesta e pilotando la loro traiettoria con dei magneti. La configurazione più efficiente consiste nel porre in collisione due fasci di particelle diretti uno contro l’altro. Lo schema prevalente fino alla fine degli anni ’50 era costituito da due anelli disposti a forma di otto: nel punto di intersezione, gli elettroni di un anello collidevano con quelli dell’altro, accelerati in direzione opposta.

Touschek, sviluppando un’idea di Widerøe, propose l’uovo di Colombo: invece di due anelli con lo stesso tipo di particella, un solo anello con due particelle diverse, anzi opposte. Un anello in cui scorrono elettroni in un senso, e positroni nell’altro, guidati dagli stessi magneti. Quando l’energia desiderata è raggiunta, i fasci vengono fatti collidere nel punto in cui sono stati disposti i rivelatori, che catturano i frammenti dello scontro. Tutto più semplice, più economico, più compatto.

Siamo a Roma, anzi Frascati, laboratori INFN, nel 1960. Sarà stato che l’Italia era in pieno boom economico. Sarà stato che il prestigio della scuola romana di fisica era ai massimi livelli. Sarà stato l’incanto che la parola «nucleare» ancora esercitava sui governi. Oppure tutto fu dovuto solo a qualche imperscrutabile allineamento planetario. Sta di fatto che dal giorno in cui Touschek propose durante un seminario l’anello elettrone-positrone al momento in cui l’acceleratore in acciaio e fili di rame vide la luce passò un solo anno, e otto milioni di lire di finanziamento, presto cresciuti a venti. La nuova macchina, unica al mondo, dal nome AdA, Anello di Accumulazione, e anche Ada, la zia romana di Touschek, era lì, pronta a gettare nuova luce sui processi quantistici. Un vrai bijoux (un vero gioiello), esclamò un fisico francese in visita a Frascati.

I moderni acceleratori sono ancora costruiti secondo l’intuizione di Widerøe e Touschek. AdA raggiungeva 250 MeV. La sua versione maggiore completata nel 1969, appropriatamente denominata ADONE, raggiunse 3.000 MeV, e per qualche anno fu l’acceleratore più potente al mondo. Chissà se i cinegiornali dell’epoca ne presero nota, insieme all’inaugurazione di qualche nuovo viadotto sull’autosole o la passerella di una star americana a Cinecittà.

da “L’algoritmo del mondo: l’irragionevole armonia dell’universo”, di Luca Amendola, il Mulino, 264 pagine, euro 16

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