Con grande soddisfazione dei deputati uscenti del Pd, di Luigi Di Maio & the navigators e vedremo se anche di Giuseppe Conte, ieri il leader di Azione Carlo Calenda ha drammaticamente abbandonato l’immaginifica “alleanza per non governare” escogitata da Enrico Letta, autore di un capolavoro strategico che entrerà negli annali della politica e presto, prestissimo, sarà studiato a SciencePo a Parigi.
Calenda ha detto di no a candidarsi insieme con la sinistra antidraghiana e con gli indipendenti populisti, liberando così molti seggi bramati dai dirigenti del Pd che ieri con una mano hanno twittato miserabili contumelie contro il caro alleato del giorno prima e con l’altra hanno esultato tipo gol al novantesimo su rovesciata per le maggiori possibilità di riottenere i seggi sicuri lasciati liberi da Azione.
Il comportamento pazzotico e rapsodico di Calenda può piacere o no, può essere considerato impolitico o no, ma in realtà si basa su convinzioni serie e coerenti, una merce rara di questi tempi in cui si fa politica imbrogliando gli elettori.
Azione ha provato prima a fondare il terzo polo, poi a costruire un’alleanza antisovranista larga e, constatata l’impossibilità di avviare un progetto credibile in alleanza con gli anti Nato, gli anti Draghi e gli ex populisti, adesso è pronta a nuotare in mare aperto, ma in tutte le occasioni non ha mai cambiato nemmeno di una virgola la centralità programmatica dell’agenda Draghi, della fedeltà europea e dell’appartenenza atlantica.
A Calenda va il merito di aver provato a far cadere per la seconda volta il muro di Berlino sui reduci del Pci-Pds e a chiudere la carriera politica di Luigi Di Maio, ma gli è andata male, molto male, perché si è fidato ingenuamente di PiùEuropa e perché non ha ascoltato chi tra i suoi lo ha sempre incitato a costruire il fronte liberaldemocratico per impraticabilità del campo largo.
Ora, probabilmente, Calenda sarà costretto a raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni del 25 settembre (in realtà, come spiega Carmelo Palma su Linkiesta, Azione potrebbe anche avere l’esenzione per la stessa ragione per cui ce l’hanno sia Bonino sia Tabacci/Di Maio). Calenda e Mara Carfagna, e tutti gli altri, non hanno alternativa a un accordo politico con Matteo Renzi, il titolare di diritto e di fatto del ruolo di stratega del fronte draghiano, visto che senza di lui non ci sarebbe mai stato un governo Draghi. Renzi e Calenda non hanno bisogno di contrattare patti politici, la pensano allo stesso modo praticamente su tutto.
La cosa che sanno in pochi è che due sabati fa, prima dell’accordo Calenda-Letta, Azione era già pronta a coalizzarsi con Renzi (con due liste separate, ma in coalizione), con il leader di Italia Viva disponibile a fare un passo indietro e a lasciare maggiore spazio a Calenda.
Le pressioni della Bonino, ma non solo della Bonino, hanno invece convinto Azione ad accordarsi con il Pd, prima che il leader si rendesse conto che non sarebbe stato possibile, né serio, convivere in una coalizione con due o tre programmi contrapposti.
Ora si torna a dieci giorni fa, con Renzi in posizione più forte rispetto a prima, ma sempre disponibile a far partire il polo contro il bipopulismo insieme con il suo ex ministro.
Calenda invece è molto tentato dalla corsa solitaria, anche contro Renzi, incurante dell’insensatezza di svolgere due campagne draghiane separate e concorrenti. Ma è anche il primo a sapere che dopo averle provate tutte, ed essendo rimasta in campo soltanto l’opzione Renzi, impedire di far nascere una coalizione liberaldemocratica sarebbe l’errore finale, letale, per lui e per tutti in una campagna elettorale già molto complicata.
Il polo liberaldemocratico può finalmente nascere, sia pure in questo modo rocambolesco. Renzi certamente ci sta lavorando, gli ex di Forza Italia pure, così come i civici con cui ieri Italia Viva ha chiuso un accordo. Calenda ci sta pensando e la base elettorale antipopulista e draghiana sarebbe trasversalmente entusiasta di questo finale a sorpresa.
Forza, ”give draghiani a chance”.