L‘Italia invecchia L‘emergenza denatalità e l‘assenza di nuove generazioni di lavoratori

Il fatto che non si facciano più figli è stato finalmente riconosciuto come un problema da parte della politica. Ora la politica se ne dovrà occupare, partendo da una riforma al sistema pensionistico

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I programmi elettorali evidenziano che l’emergenza della denatalità (nel 2021 le nuove nascite sono scese al di sotto delle 400mila) comincia a fare breccia all’interno dei partiti. Purtroppo è ancora visto come un problema a sé soprattutto di natura economica, mentre si stenta a trovare i suoi collegamenti con il mercato del lavoro, l’immigrazione e con il sistema pensionistico.

Il fenomeno della denatalità – che non può essere invertito se non nell’arco di decenni e di generazioni, ammesso che non sia già troppo tardi – comporterà conseguenze rilevanti sulla popolazione, sul mercato del lavoro, per un motivo piuttosto banale: le coorti che devono subentrare a quelle che escono dal mercato del lavoro non potranno farlo se non in parte per il semplice fatto che le prime hanno avuto tassi di natalità molto inferiori delle seconde. Combinando questo fenomeno con l’invecchiamento della popolazione si arriva – come da noi – ad avere delle società rovesciate, al cui interno gli anziani sono più numerosi dei giovani.

Persino la Fondazione Di Vittorio, think tank della Cgil, si è resa conto degli effetti della denatalità sul mercato del lavoro quando in un recente rapporto ha preconizzato che nel giro di venti anni verranno a mancare circa 7 milioni di lavoratori. È chiaro che più che un crollo si tratterà di un’emorragia progressiva, perché i saldi passivi attribuibili alle varie coorti determineranno ulteriori riduzioni dei nuovi nati, come conseguenza del fatto che vi sono progressivamente meno possibili genitori nelle generazioni precedenti.

Di conseguenza – qui casca l’asino – quella migratoria, secondo i demografi, è l’unica variabile demografica che in tempi relativamente rapidi può modificare le tendenze in atto, mentre i cambiamenti delle scelte riproduttive dell’intera popolazione richiedono un orizzonte più esteso. Fino a un certo punto ha operato, infatti, la compensazione degli immigrati, in generale in giovane età e orientati a prolificare. Negli ultimi – per tanti comprensibili motivi – i flussi hanno avuto dei problemi.

Dal 2014 il trend dei saldi immigratori negli anni precedenti si è invertito, proprio in conseguenza di un cambio di passo dei flussi di immigrazione. Il saldo migratorio non ce l’ha più fatta a tamponare la falla. Dal 2014 al 2021 sono svaniti nel nulla 1,4 milioni di residenti; di questi il Mezzogiorno ne ha persi 900mila. Poi c’è la questione delle pensioni. Come si fa a non capire che – prima di ogni altra considerazione di carattere economico e reddituale – si porrà una questione di platee? Mentre il numero dei pensionati deriverà da generazioni prolifiche e quindi numerose (per altro con storie lavorative lunghe e stabili e ancora in età intorno ai 60 anni al momento dell’accesso e con aspettative di fruizione almeno ventennale), quello dei contribuenti non potrà che diminuire in corrispondenza della progressiva riduzione delle nascite.

E, ammesso che sia possibile, si potrà provvedere solo per il futuro, non certo riequilibrare ex post delle generazioni vittime della denatalità. È difficile però trovare anche nei programmi più equilibrati ragionamenti che si facciano carico di questi problemi. Nel centrodestra la questione dell’immigrazione si confonde con la clandestinità e i problemi della sicurezza, mentre il Pd dimostra maggiore consapevolezza dell’apporto dell’immigrazione, ma stenta a intravedere i legami tra le generazioni nel campo delle pensioni acconciandosi a sostenere la proposta farisaica della pensione di garanzia per i giovani.

Peraltro tutti i programmi danzano intorno al totem dell’assegno unico: «Aumento dell’assegno unico e universale» proclama il centrodestra. Promette il Partito democratico: «Ci impegniamo a migliorare ulteriormente l’Assegno unico e universale per i figli a carico, da noi fortemente voluto, potenziando le clausole di salvaguardia, in particolare per le persone con disabilità e le famiglie con figli disabili, e rivedendo il peso della prima casa nel calcolo dell’ISEE utilizzato per l’Assegno unico».

Tutti però girano al largo del rapporto con le pensioni che restano un capitolo privilegiato a sé, anche come allocazione della spesa sociale. La materia della politica per le famiglie e i figli è un caso palese di politica criminale che negli anni ha privilegiato la spesa pensionistica. Si tratta di una storia segretata. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari era pressoché corrispondente a quella per le pensioni: allora misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare – l’Anf – il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato al reddito e al numero dei componenti.

La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu nel 1995, stabilì una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7%. Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, a oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota per l’Anf passò dal 6,2 al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23 allo 0,66%, mentre quella ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) dallo 0,35% a zero. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi.

A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, corrisposero a 8,5 miliardi l’anno. Più chiaramente – come documentò la Cei in un saggio «Il cambiamento demografico» pubblicato da Laterza – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò e trasferì un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di euro.

Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali minori in quanto non pensionistiche), la voce assegno al nucleo familiare – nonostante la riduzione dell’aliquota – continua a incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spende: l’avanzo viene riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni.

Un modello sociale tanto distorto che oggi è difficile modificare.

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