Salire in cattedraIntrodurre il docente esperto è il minimo che si possa fare per ridare vita alla scuola

Sindacati e professori (soprattutto quelli più anziani) sono contrari alla nuova figura perché introduce due concetti che mancano da troppo tempo del sistema dell’istruzione del nostro Paese: la competenza e la competitività

da Unsplash

È finalmente giunta nel mondo della scuola un’innovazione che rompe l’egualitarismo che ha governato la percezione e l’autopercezione della categoria degli insegnanti dagli anni settanta ad oggi, almeno nel nostro Paese. La figura introdotta è quella del “docente esperto”, quando l’unico avanzamento di carriera previsto da decenni è quello dell’anzianità.

Per raggiungere la qualifica occorrono tre cicli di formazione triennale al termine dei quali ci sarà un avanzamento stipendiale stabile. Il numero di docenti che raggiungerà questo obiettivo, a regime, sarà di 32.000 persone, quindi stiamo parlando di quattro persone per scuola.

La figura esiste già in altri Paesi. Ad esempio in Francia è consolidata da decenni quella del professore “agrégé”, un/a docente che ha superato un concorso bandito dallo Stato ogni anno su numeri che dipendono dal fabbisogno su ciascuna materia. Al conseguimento della qualifica, quest’insegnante lavora con un orario ridotto (15 ore invece che 18) e uno stipendio più alto (di circa 200 euro al mese). Non ha alcuna responsabilità nei confronti dei colleghi e non eroga formazione interna.

D’altro canto, un/a docente universitario/a arriva ad essere “ordinario” dopo essere stato “associato” e, prima ancora, “ricercatore”. Risulta difficile pensare che al passaggio da uno stato professionale all’altro questo docente universitario sia migliorato nella didattica o nella ricerca. Il mondo sindacale, tuttavia, concentra le proprie critiche sul fatto che questo avanzamento di carriera “non serve alla scuola”.

Quando si mettono delle risorse su un certo tema, perché rinunciare a prendere due piccioni con una fava, là dove questo sia possibile? C’erano modi di ottenere risultati più vasti? Probabilmente sì, perché questo docente esperto potrebbe essere facilmente trasformato in un insegnante supervisore/mentore/tutor.

Attenzione, Andrea Gavosto, presidente e ricercatore della Fondazione Agnelli, intercettato in un commento effettuato su un noto social network, dice: «Esistono almeno tre grandi tipologie di formazione, in ordine crescente di strutturazione. La più soft è l’apprendimento sul posto osservando i colleghi: alcune sperimentazioni suggeriscono che in effetti affiancare un bravo collega affina le capacità di insegnamento anche di coloro che risultano generalmente meno efficaci (Kraft e Papay, 2014; Papay et al., 2020). La seconda tipologia è la formazione fornita dagli altri docenti attraverso forme di tutoraggio (affiancamento da parte di un formatore esperto) che però non sembra dare esiti molto favorevoli; funziona un po’ meglio il coaching (assistenza senza imporre contenuti) da parte dei colleghi (Kraft and Blazar, 2017). Invece, i programmi di valutazione del lavoro dei docenti – la tipologia maggiormente strutturata – si sono rivelati utili ad aumentarne la competenza e l’impegno degli insegnanti (Allen et al. 2011)».

Una domanda, tuttavia, sorge spontanea. Non è che gli insegnanti esperti ci sono già? Diversi anni fa, Dario Ianes, docente di pedagogia speciale, parlava di questi docenti come “risorse latenti”. Quelle specializzate sul sostegno, con master in didattica e psicopedagogia degli alunni con funzionamento nello spettro autistico o con disturbi specifici di apprendimento, ma anche esperti di questa o quella tecnologia o di questa o quella tecnica didattica. Forse sarebbe stato utile cominciare con loro, come fanno in Francia, con un concorso.

Un’obiezione piuttosto diffusa, agitata dagli scettici, è quella che critica la figura dell’insegnante esperto in quanto eccessivamente post-datata (attiva tra nove anni) e “senza garanzie” (quanti cominceranno? non tutti otterranno il risultato!). Vale la pena fare emergere alcuni dati. Il primo è che attualmente l’unico avanzamento di carriera è quello dell’anzianità e il primo scatto avviene proprio dopo nove anni. Questo non desta scandalo e vale anche per chi entra in ruolo a 60 anni. Il secondo dato rilevante è l’età media degli insegnanti oggi in ruolo che è pienamente entro la decade dei cinquant’anni. Questo significa che almeno metà degli insegnanti di oggi non può aspirare a questo avanzamento. Quasi la metà degli insegnanti italiani si lamenta di questa innovazione, quindi, perché non la riguarda (possiamo quindi considerare questa cosa come una piccola compensazione per chi è più giovane?). L’ultimo è quello relativo alla competizione. Questo è un percorso competitivo, come quello francese, e desta clamore solo perché dagli anni settanta, in questo Paese, questo tipo di opzione è tabù.

Infine un breve elenco delle carriere che occorre davvero istituire, di tipo organizzativo e di tipo didattico. Nel primo caso abbiamo gli/le insegnanti che lavorano nello staff (dai/dalle vicepresidi ai/alle referenti di plesso e affini). Nel secondo figurano senz’altro gli insegnanti in grado di insegnare in una lingua straniera (CLIL), gli/le insegnanti specializzati sul sostegno che possono essere valorizzati con una cattedra mista (sostegno e materia) e, naturalmente, l’insegnante supervisore/mentore/tutor. A cavallo tra le tipologie ci sono i/le coordinatori/trici di classe che svolgono un ruolo organizzativo e pedagogico.

Questi i fatti. Questa nuova figura è osteggiata perché differenzia le carriere, ma è ancora poca cosa e occorre affrontare questi nodi in Parlamento perché è evidente il fatto che un accordo con i sindacati conservatori non è materialmente possibile.

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