La guerra a emissioni zero. Sembra fantascienza, ma oggi persino la Nato si impegna a ridimensionare la sua carbon footprint, con promesse analoghe a quelle di governi e aziende. Per decenni, anche per ragioni di sicurezza nazionale, l’industria bellica ha goduto di un’esenzione: come gli arsenali, il suo impatto ambientale era secretato. Quest’epoca sta finendo. È forte, infatti, la richiesta di trasparenza, e non solo da parte degli attivisti. In un mondo costretto a riarmarsi dinanzi alle minacce russe, una parte delle spese militari che vengono ritoccate al rialzo dovrà andare in ricerca e sviluppo, perché rendere più sostenibile la Difesa vuol dire traghettare nel futuro una delle più antiche attività umane.
È doverosa una premessa. Mentre un Paese democratico è aggredito dall’autocrazia brutale di Vladimir Putin, un ecologismo realista può riconoscere che la priorità immediata per l’Occidente debba essere lavorare a una pace che non coincida con la capitolazione dell’Ucraina e, quindi, continuare a sostenerla. Pure con le armi. Comprensibilmente, l’annuncio al vertice di Madrid dell’Alleanza Atlantica a fine giugno è passato quasi inosservato.
Jens Stoltenberg ha formalizzato due impegni: tagliare del 45% le emissioni entro il 2030, raggiungere la neutralità carbonica nel 2050. «Penso che nell’avvenire i più avanzati veicoli militari e le più resilienti forze armate saranno quelli che non dipendono dai combustibili fossili», ha detto il segretario generale della Nato. Servirebbe anche solo a smettere di finanziare «l’operazione speciale» di Putin comprando gas e prodotti petroliferi dalla Russia. Una schiavitù energetica da cui l’Europa sta provando faticosamente a liberarsi, alle porte di un inverno più gelido dei precedenti.
Il piano della Nato per diventare più green partirà dalla sede di Bruxelles e coinvolgerà tutte le sue piazzeforti europee, tra le quali Mons, sempre in Belgio, Napoli e Brunssum nei Paesi Bassi. Una delle sfide principali passerà però dall’hardware se un carro armato tedesco come il Leopard 2 consuma 400 litri per percorrere 100 chilometri. A lungo, le emissioni generate dagli eserciti sono state scomputate da quelle ascrivibili a ciascuna Nazione. Adesso, man mano che vengono rivelate, ci si accorge di quanto pesano davvero.
Al settore delle forze armate è attribuito il 6% delle emissioni globali: più del trasporto aereo e navale messi insieme. Il calcolo è di Scientists for Global Responsibility, ma ci sono elementi per pensare che la percentuale possa essere più elevata, perché le stime elaborano solo i dati di dominio pubblico. Sono cominciate alcune meritorie campagne di trasparenza. Per esempio, nel Regno Unito si è scoperto che metà delle emissioni di cui è responsabile il governo centrale sono determinate dal Ministero della Difesa. Uno studio commissionato dal Parlamento europeo, invece, ha quantificato per gli eserciti dei 27 Stati membri un’impronta di 24,8 milioni di tonnellate di anidride carbonica nel 2019, cioè l’equivalente di 14 milioni di automobili.
Ma non tutti i Paesi divulgano queste informazioni. Tra le istituzioni, è il Department of Defense degli Stati Uniti il maggior consumatore mondiale di combustibili fossili. Se fosse una Nazione, su scala globale si classificherebbe al 47esimo posto, tra il Perù e il Portogallo. È stata una ricerca del 2019 a ricostruirlo. Tre degli accademici che ci hanno lavorato, in un lungo articolo su The Conversation, hanno spiegato perché esiste e, anzi, è legittimata a livello internazionale questa anomalia, che esenta gli apparati bellici dalle responsabilità ambientali a cui deve rispondere ogni altro ramo della società.
«Nonostante le dimensioni smisurate delle forze armate, sappiamo sorprendentemente troppo poco sulle loro emissioni», scrivono gli autori. Si tratta, infatti, di una delle ultime industrie altamente inquinanti che non devono rendicontare quanti gas serra producano. Furono gli Stati Uniti a ottenere questo esonero mentre venivano negoziate le condizioni del Protocollo di Kyoto del 1997. «Un lavoro formidabile», lo definì l’attuale inviato presidenziale per il Clima, John Kerry, al Senato un anno dopo. Nel 2015, l’Accordo di Parigi ha rimosso questa clausola, ma senza imporre un obbligo. Insomma, è tutto solo su base volontaria.
Attualmente, 46 Paesi e l’Unione europea compilano ogni anno un report sulle loro emissioni all’interno dello United Nations framework convention on climate change (Unfccc). Anche i più virtuosi, però, spesso scorporano i dati e li rendono difficili da leggere. Per esempio, il Canada rubrica le emissioni della sua aviazione all’interno del trasporto in generale. Molte delle potenze con le più alte spese militari, poi, non aderiscono allo Unfccc. Tra queste figurano Cina, India, Israele e Arabia Saudita. A livello globale, il budget ha toccato i due triliardi di dollari nel 2020: continuiamo a sapere troppo poco delle ricadute sul pianeta di questo fiume di soldi.
È ancora forte la cultura del cosiddetto “eccezionalismo militare”. Quella bellica è considerata un’industria strategica, molto influente in termini di lobbismo e protetta perché sinonimo di sicurezza nazionale. I suoi cicli di approvvigionamento e sviluppo sono lunghi, ma proprio per questo – se non la si svecchia – si perde terreno sia con i potenziali avversari, sia con i progressi tecnologici. Ha ravvisato questo ritardo anche il Boston consulting group, una delle più autorevoli società di consulenza manageriale al mondo.
Gli analisti posizionano la Difesa in uno stadio embrionale per quanto riguarda le emissioni di gas serra. Si è concentrata sui cosiddetti obiettivi di Scope 1 e 2, che però incidono poco, e non ha ancora adottato un approccio olistico, comprensivo della filiera dei fornitori. Non solo. «È plausibile che il contributo alle emissioni globali possa impennarsi dall’odierno 2% al 25% entro il 2050, se i contractors non agiranno più aggressivamente per ridurre le loro impronte carboniche». Senza un cambio di paradigma, insomma, l’orizzonte “net zero” resterà un miraggio.
Negli ultimi anni, il settore non è rimasto immobile, sulla scia del risveglio di coscienze collettivo. Alcune aziende come Babcock, BAE Systems, ITP Aero, Meggitt e QinetiQ hanno adottato obiettivi allineati a quelli dell’Accordo di Parigi. E si intravedono anche possibili soluzioni. Nell’aviazione, una nuova generazione di motori a idrogeno e, soprattutto, combustibili meno inquinanti. Gli aerei da combattimento volano più in alto e, quindi, abbattere le loro emissioni è importante per contrastare il cambiamento climatico. Si stima, poi, che ce ne siano 53 mila: più del doppio di quelli civili.
Anche nella marina la ricerca si concentra sui sistemi di propulsione alternativa e ibrida, mentre i veicoli elettrici stanno già entrando in servizio a fianco delle truppe terrestri, per ora lontano dai campi di battaglia. Un ultimo problema riguarda i rifiuti. Senza citare le scorie nucleari, per cui servirebbe un longform a parte, i roghi di immondizia nel 2019 erano ancora la norma nelle missioni americane in Iraq e in Afghanistan. Gli accordi internazionali sul tema, purtroppo, sembrano destinati a restare un’utopia. Proprio come un mondo senza guerre.