«L’ultima goccia» non è un podcast “solo” sulla siccità. Racconta il cambiamento climatico con una prospettiva olistica che forse è l’unica adatta a documentarlo davvero. L’ultima uscita di Chora, già disponibile su tutte le piattaforme, è un viaggio in quattro episodi in un’Italia più profonda dei suoi corsi d’acqua ormai riarsi. È un reportage acustico, dove si sente scorrere un fiume, il Po, che è stato grande come la civiltà che ha cullato e non è il solo a rischiare di scomparire. Ma si ascoltano anche le testimonianze di chi prova a proporre soluzioni: profeta nel deserto, ma in senso letterale, se non verranno adottate in un futuro sempre meno remoto. Ne abbiamo parlato con Francesca Milano, autrice e voce della serie.
La prima puntata insegna che bisogna essere dei poeti per descrivere l’ascesa sul Monviso. Basta essere giornalisti per raccontare il cambiamento climatico?
«Direi che non è necessario. Bisogna essere dei cittadini con un occhio non miope, in grado di guardare avanti. Tutti noi dovremmo interessarci al cambiamento climatico perché ci riguarda da vicino. Non è più distante nel tempo o nello spazio: si tocca con mano tutti i giorni».
Come è venuta l’idea del podcast?
«Ci stavamo interrogando su questa estate caldissima, abbinata a mesi di siccità. Caldo e siccità sono due cose diverse, ma c’è stata una specie di combo. È nato tutto da un servizio dell’Ansa sulla secca del Po, con le foto di due signori, a petto nudo e in calzoncini corti, che giocano a bocce sulla sabbia. È bianca, sembra quasi caraibica, ma poi vedi dietro un cavalcavia e capisci dove ti trovi. Abbiamo pensato fosse un soggetto da mettere in primo piano, un pretesto visibile e “instagrammabile” che però permette di andare un po’ oltre, su problema globale e non solo del singolo fiume».
Il viaggio parte dalla sorgente, il Monviso delle cerimonie della Lega di Bossi. Che rapporto ha la politica con il fiume della dichiarazione d’indipendenza della Padania?
«Mi ricordavo quel discorso e il giorno dell’ampolla. Credo di aver identificato nella memoria il Po come una linea di confine tra la Padania e tutti noi che stavamo sotto. Io sono napoletana. La Lega è cambiata, quel confine è stato abolito e il fiume è stato liberato da questo collegamento. Però la politica ha ancora pochissimi agganci reali col problema del cambiamento climatico e della siccità. Sembrano ineluttabili, nel senso che non ci possiamo fare niente, ma così si perdono le speranze. In realtà, piccole soluzioni ci sono. Sono fiduciosa nelle nuove generazioni, come il movimento dei Fridays for Future, con i loro singoli comportamenti nel vissuto quotidiano. Sono piccole azioni che sembrano inutili, ma possono fare la differenza. Però non possono bastare, ne servono di più grandi dalla politica».
La serie spiega come mai i fiumi restano vuoti anche se i ghiacciai si sciolgono. Non è l’unica informazione apparentemente controintuitiva che si apprende ascoltando.
«La professoressa Elisa Palazzi, che insegna Fisica del clima a Torino, mi ha spiegato che il problema è che i ghiacciai fondono tutti nello stesso momento, in un paio di mesi, mentre poi magari d’inverno i fiumi si gonfiano per le piogge torrenziali. Questa esasperazione dei fenomeni climatici è dannosa. Tra le altre cose che mi hanno sorpreso, ho scoperto che in realtà noi parliamo del caldo, di un’estate più calda delle altre, però il problema è la siccità. Sono due cose diverse. Noi che viviamo in città non ci pensiamo, ma in campagna mi hanno spiegato che il problema non è il caldo, ma che non piove e non ha piovuto».
Il reportage dà spesso la parola alle persone, tra le nuove generazioni che ridanno vita alle tradizioni e le rinnovano e chi, più attempato, fa da memoria storica di un territorio.
«Ho cercato soprattutto storie vere, senza cercare la storia straordinaria. Mi piaceva l’idea che a parlare fosse “uno dei”. Gli intervistati non sono persone speciali, ma comuni, né eccellenze né gli ultimi della lista. Prendere qualcuno dal mucchio ti fa capire cosa dice quel settore, perché i suoi problemi sono quelli di tutti in quella zona».
E loro propongono delle soluzioni, come gli invasi o l’irrigazione intelligente. Che idea ti sei fatta?
«Queste soluzioni esistono, solo che sono ancora molto “spot”, poco messe a sistema, e rimangono sperimentazioni. Il depuratore di Cesena è una best practice pazzesca, depura tutta l’acqua della città – quella con cui ci laviamo i denti, facciamo lavatrici e cuciniamo – e la rende adatta a irrigare i campi. È un progetto sperimentale, funziona solo per la serra che c’è nella sede di Hera. Le analisi su frutta e ortaggi hanno dimostrato che non c’è alcun rischio: sono sani e di ottima qualità. Una volta che hanno dimostrato di funzionare, però, questi progetti devono essere messi a regime».
Siamo autorizzati a essere ottimisti, quindi?
«Ci tenevo che tutte le storie avessero un messaggio positivo e anche attivo: tutti quanti possiamo fare qualcosa, se veniamo sensibilizzati. Non siamo alla fine, alla catastrofe o al punto di non ritorno, ma dobbiamo fare qualcosa per non superarlo. Raccontare il Po in un anno di particolare secca ci ha portato a risalire alla fonte. Dalle montagne arriva poca acqua perché il caldo ha sciolto rapidamente nevai e ghiacciai. Ci fa capire perfettamente che i problemi climatici sono davvero una catena di eventi collegati tra loro».
Il podcast racconta la scomparsa dell’occitano, ma anche mestieri altrettanto fragili come agricoltori e allevatori. Si tratta di altre ultime gocce?
«Ho inserito la storia dell’occitano proprio per questo. È una metafora di quello che sta succedendo con l’acqua, una lingua che si sta perdendo come le risorse idriche. Ma anche in un posto piccolino hanno trovato un modo, con un corso, per tramandarlo alle altre generazioni e per far sì che non vada perso. In tutti i settori possiamo cambiare le cose, è la metafora di questo».
È presto per sapere se ci sarà un’altra stagione?
«Si tratta di argomenti su cui personalmente e come Chora vorremmo tornare. Ci saranno altre produzioni su questo tema, ambientale e climatico, e mi piacerebbe farlo sempre in modo giornalistico, sotto forma di reportage, perché parlare con le persone, ascoltare le loro storie è il modo migliore per sentirlo vicino».
Come l’ha vissuta il tuo cane Carlotto, compagno di tutte le puntate?
«Abbiamo deciso di fare questo podcast quasi da un giorno all’altro. La sua dog sitter era in ferie, quindi mi ha costretto a portarlo. Carlotto, comunque, è abituato a viaggiare in auto, è stato molto buono anche in ambienti nuovi, come la barca. Non ha disturbato troppo nelle interviste, anche se chi ha un orecchio attento può sentirlo piagnucolare qualche volta. Ha conosciuto un sacco di persone e di animali, anche le mucche, e ormai, sì, è diventato la mascotte del podcast».