C’è una contraddizione fondamentale nella campagna elettorale del Partito democratico che in questi ultimi giorni è diventata particolarmente evidente. La questione è semplicissima: non puoi sostenere che il tuo avversario rappresenta una minaccia per la democrazia e contemporaneamente offrirgli continuamente sponda, puntando sul gioco della legittimazione reciproca e della polarizzazione a danno di tutti gli altri, a cominciare dai dibattiti in tv (dove è Enrico Letta il primo a non volere la partecipazione delle altre forze).
Quando Walter Veltroni nel 2008 scelse di mettere fine alla coalizione di centrosinistra e correre da solo, scommettendo sul voto utile, coerentemente con quell’impostazione, si guardò bene dal sostenere che Silvio Berlusconi rappresentasse un pericolo per la democrazia. Parlò al contrario di un bipolarismo maturo, tendente al bipartitismo, e di riforme costituzionali da fare insieme dopo le elezioni per consolidare un tale sistema. Quale che fosse il giudizio su tale strategia (il mio era pessimo) non se ne poteva discutere la coerenza.
Se al contrario giustifichi l’eterogeneità delle tue alleanze parlando proprio di «emergenza democratica», come ha fatto Letta il 6 agosto presentando l’accordo con Verdi e Sinistra – occasione in cui peraltro ha aggiunto, papale papale: «Siamo diversi ma sappiamo che le nostre divisioni alle elezioni potrebbero, con questa legge elettorale maggioritaria, dare alle destre il potere di stravolgere la Carta» – non puoi non spiegare per quale motivo sei stato proprio tu, appena diventato segretario, a schierarti a difesa del maggioritario, e soprattutto come mai hai cambiato idea solo adesso, e chi ci dice che non la ricambierai un minuto dopo il voto.
Giusto ieri Stefano Ceccanti, in un’intervista al Riformista, ha denunciato con forza i rischi di una vittoria del centrodestra per la democrazia e per la permanenza dell’Italia nell’Unione europea, dichiarando tra l’altro: «È sempre la stessa tentazione illiberale: chi vince le elezioni in un Paese è legibus solutus». Di più, a domanda sulle riforme costituzionali, ha puntualmente osservato che «il destracentro deve prima chiarire se, ove vincesse, considera le regole e le istituzioni di garanzia come materia di cui impadronirsi, come se fossero un’appendice del Governo». Deve chiarire cioè se intenda ingaggiare da subito «uno scontro per delegittimare Mattarella con argomenti immotivati ma prevedibili» (come le dichiarazioni di Berlusconi lasciano prevedere) e insomma se voglia «adottare un’impostazione orbaniana per cui l’eventuale vincitore sarebbe abilitato a prendere tutto, a non fare prigionieri, secondo l’espressione che Cesare Previti usò nel 1994».
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, Ceccanti è il costituzionalista e parlamentare del Pd – inizialmente finito fuori dalle liste e poi ripescato grazie alla risistemazione resa necessaria dai noti pasticci – che più di ogni altro ha sostenuto a suo tempo il voltafaccia sul taglio dei parlamentari con cui i democratici sono passati in un attimo dal no al sì, contestualmente al loro passaggio dall’opposizione al governo con i Cinquestelle, promotori della riforma. Ed è, da sempre, uno dei più convinti fautori del maggioritario.
Non si può dimenticare, tra l’altro, che furono proprio i massimi dirigenti del Pd di allora, al momento di approvare il taglio dei parlamentari, a parlare di rischi per la democrazia e l’equilibrio dei poteri che rendevano necessari dei correttivi, a cominciare da una legge elettorale proporzionale.
Non per nulla, alla notizia dell’iniziale esclusione di Ceccanti dalle liste, un arguto twittatore (Pierantonio Luceri) osservò giustamente: «Ecco qual era il famoso correttivo successivo di cui parlava Ceccanti a sostegno del taglio dei parlamentari». Ora che è stato ripescato, dice che bisogna capire se il centrodestra intenda «adottare un’impostazione orbaniana». Domanda che il Pd avrebbe dovuto farsi nel settembre 2019, prima di votare il taglio in Parlamento, o perlomeno nel settembre 2020, prima di votare sì al referendum, non certo nel settembre 2022: il giorno dopo le elezioni sembra un po’ tardi per rispondere a quella domanda, non vi pare?
Per chi ha passato gli ultimi tre anni a denunciare esattamente questo rischio, come ha fatto Linkiesta, è difficile spiegare quale effetto faccia sentire oggi Letta e Ceccanti (e tanti altri) parlare di emergenza democratica, minaccia alla Costituzione e possibile deriva verso una democrazia illiberale di tipo ungherese, proprio a causa di quel maggioritario che loro non hanno voluto cambiare, facendo asse con Giorgia Meloni (indimenticabile Letta che prende gli applausi di Atreju proprio su questo, in una delle cento iniziative fatte con la leader di Fratelli d’Italia).
È ora che Letta e i suoi sostenitori, nel Pd e sui giornali, si decidano: se pensano che non ci sia nessun rischio per l’equilibrio dei poteri, le garanzie costituzionali e lo stato di diritto, come pensavano fino a un minuto prima del voto, si comportino di conseguenza; se hanno cambiato idea, che almeno lo ammettano.