Altro che occhi di tigre, Enrico Letta ha tirato fuori gli artigli e gustato il piatto freddo della Grande Vendetta contro chi ha poco o tanto di sangue renziano nelle vene: ed è appunto la corrente di “Base riformista” – della quale avevamo chiesto giorni fa che fine avesse fatto – a rimetterci le penne, lei e i vari esponenti più o meno autonomi dal segretario.
Tutto questo testimonia ancora una volta come Letta sia prigioniero dei due uomini forti del Pd, Andrea Orlando e Dario Franceschini e di un ras come Michele Emiliano che ha fatto bingo in Puglia (determinando l’uscita dal partito di Dario Stefàno): impressionante la forza di quest’ultimo che ha costruito nel tempo una sua presenza su Napoli grazie a un’intensa politica del dicastero della Cultura da lui guidato e che oggi è appunto capolista nel capoluogo campano dopo la disfatta nella sua Ferrara di quattro anni fa, e lasciamo stare qui la candidatura in ottima posizione della moglie, Michela Di Biase, brava consigliere regionale del Lazio ma certamente di caratura inferiore a quella di tantissimi esclusi.
Esclusi per colpa del taglio dei parlamentari? Anche, certamente. Oggi appare chiaro come questa sia stata la riforma più vergognosa della legislatura, non a caso ideata dai populisti grillini e appoggiata dal Pd all’epoca dell’”alleanza strategica” di Zingaretti, Bettini e Franceschini, una “riforma” che per esempio introducendo collegi senatoriali enormi implica una “lotta di classe” in politica come nell’Ottocento: un riccone può pagarsi la campagna elettorale, un operaio no. Che poi la riduzione oggi si ritorca contro i suoi apprendisti stregoni è magra consolazione: la rappresentanza è stata ridotta con in più il fatto che liste elettorali sono nelle mani di quattro potenti. Una lesione democratica che va ricordata a chi già immagina per il dopo-elezioni una nuova intesa tra Pd e M5s, una farsa dopo la tragedia.
Enrico Letta ha quindi esercitato appieno il suo potere più o meno come fece a suo tempo Matteo Renzi e prima ancora Pier Luigi Bersani: solo che Letta non ha vinto alcun congresso e dunque ci si sarebbe aspettato un di più di sensibilità verso esponenti da lui distanti. Nel merito emerge una certa confusione, per usare un termine blando. Il taglio dei parlamentari c’entra fino a un certo punto: alcune esclusioni e certe inclusioni restano inspiegabili anche con il ridotto numero dei parlamentari. Inspiegabili: non c’è altra parola per spiegare l’esclusione di un giurista di prim’ordine come Stefano Ceccanti, uno che non è stato utile solo al Pd ma al Parlamento in quanto tale; o per spiegare perché uno di migliori uomini di governo come Enzo Amendola, colui che ha materialmente discusso in Europa il Pnrr per conto di Draghi (ciao agenda!) sia stato posto in una condizione che rende difficilissima la sua elezione; lo stesso vale per Emanuele Fiano, non solo fiero antifascista ma esperto parlamentare o per Filippo Sensi; poi Giuditta Pini, Valeria Fedeli, Salvatore Margiotta, Luca Lotti, Tommaso Nannicini, Fausto Raciti sono addirittura fuori dalle liste.
Gente autonoma, dai pericolosi trascorsi renziani: è il rancore del 2014, ricordate la penosa scena della consegna della campanella da Letta a Renzi? E se Marco Bentivogli, uno dei pochi che s’interroga con competenza sui temi della nuova economia, è messo in un collegio marchigiano difficilissimo, invece sono state paracadutate le ex segretarie della Cgil e della Cisl Susanna Camusso in Campania e Annamaria Furlan in Sicilia in posizioni sicurissime. Altro che agenda Draghi: la Camusso!
Da tutto questo emerge un’idea confusa di partito – e questo al netto dei tappeti rossi srotolati sotto i piedi dei cespugli-alleati, da Di Maio a Fratoianni (che ha tolto il posto a Ceccanti) a Speranza – né pienamente ambientalista né pienamente garantista né pienamente draghiano né pienamente laburista: un mischione un po’ dovuto al caso un po’ gentile omaggio ai potentati interni (non sono nemmeno più “correnti” in senso classico, quelle vere almeno erano portatrici di idee), un bibitone tipo quelli che si prendono prima di fare le lastre. La campanella del rancore, quella del 2014, oggi Enrico Letta l’ha fatta suonare contro veri e soprattutto presunti nemici. Con un risultato che alla fine scontenta molti e lascia interdetti tutti.