In Italia mangiamo da qualche centinaio d’anni nello stesso modo: un modo un po’ canonico, che prevede un piatto di apertura, un primo sostanzioso a base di cereali, un secondo di carne o pesce e un dessert. Questa è da sempre la scansione anche dei menu dei ristoranti, che si compongono di quattro sezioni, ciascuna dedicata al susseguirsi storico delle portate.
Questa successione standardizzata è una certezza, ci rassicura e ci dà delle ancore nella scelta. “Tu cosa prendi? Facciamo antipasto e secondo?” è un grande classico delle conversazioni al ristorante. Nel resto del mondo le cose funzionano diversamente, perché il “primo” non esiste o quasi, e quando ci sono i carboidrati, fanno la parte del “main course” e sono sempre e comunque considerati piatti principali, con pasta o riso e proteine integrati in un unico piatto. La scansione del menu anglosassone, ma anche francese e orientale, è completamente differente dalla nostra.
E per un italiano, quando questa sequenza canonica non c’è, siamo subito in zona s-comfort. E quindi anche nei menu degustazione dei ristoranti più creativi di solito ci si attiene a questa successione: pur all’interno di una scomposizione in piccole porzioni e mille idee, si mantiene la cadenza attesa, che diventa così l’unica parte rassicurante anche in un menu completamente fuori dalle attese.
Sempre di più, però, queste certezze granitiche traballano, grazie a giovani chef che stanno cercando di rivoluzionare il concetto stesso di cucina italiana, trasformandolo in qualcosa di identitario, di personale e soprattutto di rivoluzionario rispetto alle regole canoniche imposte dal fronte costituito.
Ci ha provato Paolo Lopriore, che con la sua proposta al Portico ad Appiano Gentile mantiene lo schema classico ma lo fa diventare una composizione di elementi da comporre a tavola, con l’ospite che si può auto-determinare il piatto, le quantità e la varietà di condimenti e salse di accompagnamento. Lo fa da Exit Matias Perdomo, che propone una serie di tapas che si susseguono, piatti e piattini degustazione che possono essere divisi o abbinati a piacere, senza che per forza ci si debba limitare alle quattro portate canoniche.
Lo ha fatto Røst, a Milano, dove da sempre i piatti valgono in sé e possono essere abbinati a piacere, senza uno schema ma a mano libera secondo le voglie, l’appetito e il momento.
Ma l’esperimento che ci ha più colpiti in questo senso è quello appena nato alla Giudecca, nello scrigno prezioso dell’hotel Cipriani, dove Riccardo Canella sta compiendo passo per passo la sua piccola grande rivoluzione gastronomica, tipicamente italiana eppure completamente fuori schema rispetto alla nostra tradizione consolidata.
Sulla sua bio di Instagram questo ragazzone con lo sguardo deciso velato di timidezza, padovano di nascita ma veneziano di adozione, ha scritto una frase che rispecchia pienamente la sua verità, gastronomica e forse anche filosofica: “Libero è chi ha radici profonde”. E lui le radici ce le ha ancorate fermamente alla sua terra d’origine, che è tutta e completamente presente nelle sue proposte gastronomiche del ristorante Oro, main place dell’hotel con vista su Venezia, che ha visto passare dalle sue camere tutti i più grandi personaggi del mondo, con la sua posizione defilata e la sua atmosfera da club. Canella riporta qui il suo mondo, che è fatto di radici profonde ma anche di visione e di creatività che vengono da lontano, dalle cucine del nord Europa dove questo ragazzone barbuto ha lavorato negli ultimi otto anni: la cucina sperimentale del Noma, forse il luogo che più di ogni altro ha dettato le regole della nuova cucina mondiale, era fino a pochi mesi fa il suo laboratorio quotidiano. È lì che ha messo a punto le tecniche più all’avanguardia, è lì che ha trovato ispirazione e forza, è lì che ha capito quanto la sua terra avesse da offrire a chi è in grado di coglierne gli spunti e i pregi.
È per questo che è tornato: «Amo l’Italia e credo nelle potenzialità del nostro Paese» dice con convinzione. Non è qui per nostalgia, ma per precisa scelta. È un fornello in fuga che ce l’ha fatta, e che proprio per questo è tornato e ha deciso di investire su una terra in grado di offrirgli soddisfazioni e lavoro, ma anche spazio per la creatività.
Nel suo menu nulla è dove dovrebbe, nulla è come vorreste: si beve il brodo da una cannuccia fatta di zucchina e polline, si passa da un boccone freddissimo a uno ben caldo, dall’acido al sapido, dal morbido al croccante. Si assapora il pane come fosse una portata, si addenta una maschera veneziana coperta da petali, si mangia Murano in un bottone multicolore. Si chiude con qualcosa che ha la grazia e l’eleganza di un dolce ma è tutto tranne che quello che siamo comunemente abituati a pensare come dessert. E alla granita più buona della storia segue una quenelle avvolgente di gelato di asperula, ostrica, blu di capra e olio al dragoncello, che potrebbe essere tranquillamente un antipasto, e invece è la fine di una cena che ha al suo interno più aspetti di ricerca di qualunque esperienza precedente, durante la quale con il riso alloro e zafferano, omaggio a Marchesi e ad Alajmo, si abbina lo Chateau d’Yquem, iconico vino da dessert che qui è pairing graditissimo a un piatto sapido con una punta di dolcezza.
Un menu orizzontale, dunque, che ci invita a lasciarci andare e a farci sedurre dalle suggestioni dello chef, e che pur offrendoci ben poche certezze ci diverte, ci intriga, ci riconcilia con la cucina di ricerca e di tecnica, che non è quella cerebrale di chi vuole stupire ad ogni costo ma è invece quella che sa qual è la direzione da prendere e la imbocca con cognizione di causa, col timone a dritta e con quella sicurezza che viene dallo studio, dalla ripetizione ossessiva del gesto ma soprattutto dall’aver interiorizzato i sapori e gli ingredienti, le ricette e le tradizioni di una terra che si mostra prepotente, e rimane al centro di tutto il pensiero gastronomico.
Un menu cento per centro veneziano, che di sicuro non avete mai assaggiato nella vita, ma che vi riporterà all’assaggio ai sapori di tradizione. Senza che nulla sia come ve lo sareste aspettato. Persino il nome del ristorante, che a un primo impatto sembra un pretenzioso inno al lusso che ci circonda, è un omaggio alla cupola di Adam Tihany, l’architetto che ha disegnato il ristorante nel 2014, ma anche una preziosa dedica a Venezia e al suo dialetto e all’espressione Oro benon, che è proprio la perfetta sintesi della soddisfazione che si prova uscendo da qui.