“Non giocare con il cibo”, “Non mangiare con le mani”, “Non fare la scarpetta”: sono alcune delle regole fondamentali del galateo a tavola, ovvero le raccomandazioni che ogni occidentale si abitua presto a sentirsi ripetere fin dall’infanzia. Eppure, almeno in parte, la ristorazione contemporanea sta andando in tutt’altra direzione, creando luoghi in cui a tavola ci si può divertire, giocando con sapori, colori e consistenze diverse, utilizzando e stimolando tutti i sensi contemporaneamente, e trasformando il pasto in un’esperienza unica e memorabile, grazie alla capacità di toccare corde profonde e di creare baudelairiane “correspondence” tra chi mangia e chi cucina.
Menu da “una, nessuna, centomila” portate
Sulla carta le regole sono sempre le stesse: si arriva al ristorante, si consulta il menù e si ordinano uno o più piatti, oppure ci si affida ai percorsi di degustazione proposti dallo chef. Nulla di più rassicurante. Ma cosa succede se la portata arriva in tavola “scomposta”, nella forma e nei sapori, spesso senza neppure le “istruzioni di montaggio”? La sfida in questo caso è duplice: al cliente spetta il compito di ricomporre i volumi e il senso complessivo della pietanza; al cuoco quello di farsi da parte, lasciando che la sua creazione prenda una vita propria e una direzione inaspettata, seguendo le infinite e sempre diverse interpretazioni degli avventori.
Un invito per tutti i sensi
Tra piattini, ciotoline, cocotte, cloche in miniatura, piccole alzate, taglieri, polveri da aggiungere e liquidi da mescere, ogni piatto si trasforma in un esperimento, un’esperienza, un gioco. Il cliente è invitato a guardare, annusare, toccare ciò che ha davanti, testare temperature, “ascoltare” le consistenze e, solo in seguito, ad assaporare il frutto di abbinamenti nuovi a ogni boccone. Una sorta di puzzle in cui colori e forme si incontrano ad ogni forchettata, fondendosi in una rinnovata armonia. Perché sì: a parità di ingredienti i sapori cambiano, a seconda dell’ordine in cui toccano il palato e, soprattutto, in base alla favola che riescono a raccontare al cervello prima che alle papille gustative (motivo per il quale il famoso “aeroplanino” con i bambini non conosce tramonto!). Ciò che ci fa divertire, evadere, sognare, sembra (ed è) inevitabilmente più buono. E l’invito a giocare a tavola assume quindi una nuova legittimazione nobile.
In principio fu un “raviolo aperto”…
All’origine di questa destrutturazione (e capovolgimento di ruoli tra ingredienti, ma anche tra chef e clienti) c’è stata la ricerca di Gualtiero Marchesi, che parlava di una “cucina timbrica”, in cui gli elementi fossero separati gli uni dagli altri, in modo da rendere distinguibili e riconoscibili tutti gli ingredienti (freschissimi), proposti ciascuno nel proprio sapore puro e originario, senza tuttavia snaturare un piatto tradizionale. E cosa c’è di più classico di un raviolo? La rivoluzione è stata servirlo “aperto”, non più come uno scrigno che racchiude e nasconde, bensì come qualcosa in cui tutto, dalla pasta al ripieno, fosse posto sullo stesso piano, ugualmente valorizzato e gustabile in modo diverso dal solito. Ammettiamolo: chi non ha mai “disfatto” un raviolo/tortello/cappelletto per assaggiare solo il ripieno?
A scuola di semplicità “democratica”
La sperimentazione avanguardistica verso la semplicità iniziata dai piatti di Marchesi viene accolta ed estremizzata da Paolo Lopriore, che prima al ristorante Tre Cristi di Milano, oggi a Il Portico di Appiano Gentile, in provincia di Como, affronta (o lancia?) la sfida di liberare la cucina dalla schiavitù della tecnologia, dalle imposizioni del menù, dai vincoli della porzione e dalla “gabbia” del piatto: non sono più solo gli ingredienti ad essere scomposti sulla ceramica, ma è la pietanza nel suo insieme a restare “irrealizzata” fino a quando non è il cliente a darle forma attingendo autonomamente tra le diverse preparazioni che giungono sul tavolo separate e lavorate il meno possibile. Un’idea che è anche un manifesto democratico applicato alla cucina e un invito alla riscoperta della convivialità: rivoluzionare il servizio diventa la chiave per veicolare il messaggio che ciascuno è libero di creare il proprio percorso e che non c’è un modo giusto o sbagliato per farlo.
La riabilitazione della scarpetta?
Eliminati gli artifici “cosmetici” del piatto, le sovrastrutture di ciò che lo chef si aspetta e i dettami che l’etichetta della ristorazione ingessata impone, restano solo la curiosità e l’immediatezza irriflessa e irrazionale dei sensi, ma soprattutto l’esaltazione dei gesti semplici come quello di condividere il cibo e di godere in modo spontaneo del pasto.
E dopo aver gustato i sapori separatamente, cosa c’è di più spontaneo se non desiderare di “raccoglierli” e dargli un senso definitivo? Marchesi lo ha fatto combinando la sua “cucina timbrica” con quella “tonale”, ovvero elementi separati e fusi gli uni con gli altri in due varianti della stessa preparazione capaci di convivere nello stesso piatto. L’ossimoro alla trapanese, ovvero pesto alla trapanese in due versioni (una super amalgamata, l’altra “a pezzettoni”) servite a condimento dello stesso piatto, ne è l’emblema).
Paolo Lopriore invece gioca su questa duplice tendenza ed esigenza spingendosi fino a rinobilitare (a partire dal piatto La zolla di Certosa, una rivisitazione espressa e senza cottura della ribollita) lo “strappo del pane”: il gesto più genuino e spontaneo, spiazzante e disarmante, che testimonia l’apprezzamento di un piatto e la volontà di non lasciarne intentata o sprecata nemmeno l’ultima possibile declinazione di gusto. Un po’ come fece, a suo tempo, Angelo Paracucchi.
Sulle spalle dei giganti
Storia, tecnica, divertimento e gusto sono gli ingredienti su cui molti altri chef stanno creando una propria identità e idea di cucina, rifacendosi ma al tempo stesso allontanandosi dalla classicità contemporanea dei predecessori, per cercare una declinazione nuova e personale di estetica ed essenzialità gustativa.
Alessandro Panichi, allievo ed erede tanto di Marchesi quanto di Lopriore, dal 2011 guida il ristorante Sotto l’Arco di Villa Aretusi (Bologna), dove crea menù vari e vivaci, talvolta ironici, caratterizzati dall’alternanza fra gli stili e dalla combinazione di tecniche diverse, dalle più essenziali (pochi ingredienti, crudi o minimamente elaborati) alle più avanguardistiche. La sua è una cucina senza mai eccessi o accanimenti sui prodotti, che anzi vengono rispettati ed esaltati in modo netto, creando un equilibrio che permette di mettere i piatti in successione, senza ridondanze né “strappi, restituendo al pasto un senso di familiarità tipicamente emiliana.
Tra sacro e profano
Gesti semplici, romantici e al contempo pratici, capaci di creare contrasti di sapori ed eleganza visiva ma anche di imprimere un segno deciso nella memoria sensoriale. Questa è l’essenza anche di Anna Ghisolfi, una chef autodidatta che, dopo un passato nel basket e un’attività di catering, nel 2016 ha dato il suo nome a un ristorante situato nell’Oratorio del Crocifisso, una chiesa sconsacrata alla fine del Cinquecento, in Via Giulia, nel centro storico di Tortona. Questa location unica, con cucina a vista nell’abside, diventata ogni sera il palcoscenico per un’esperienza sensoriale e conviviale autentica, in cui ogni piatto viene scomposto e liberato da ciò che non è sostanziale, e a ogni ingrediente vengono restituiti una dignità propria e di un valore unico legato alla stagionalità e al territorio (dalla fragola Profumata di Tortona al formaggio Montebore, dagli agnolotti di Tortona al vino Timorasso).
Il menù è un gioco, che comincia con una selezione di amuse bouche, assaggi semplici e divertenti piccoli origami colorati (cremosi, essiccati e sferificati) da condividere tra commensali. Anche le portate dal nome più tradizionale, ispirate quotidianamente dai colori e dai profumi dei banchi del mercato, diventano “interattive” al momento del servizio.
Per esempio: si ordina un risotto alla zucca e si riceve un piatto di semi e sferificazioni di Passito, mentre il protagonista viene servito a parte, al centro del tavolo, in modo che ognuno possa comporre da sé la propria portata. Gli ospiti sono invitati a passarsi i piatti e a suggerirsi l’un l’altro abbinamenti estemporanei tra ciò che hanno davanti, devono essere aperti a un po’ bambini, a giocare con i colori, a stupirsi delle consistenze e degli effetti scenografici del luogo: mangiare con gli occhi prima che con la bocca, per vivere un’esperienza coinvolgente e a tutto tondo.
Studiare, sperimentare, viaggiare…
Recuperare il senso dello stare a tavola, la purezza delle percezioni ancora prima che il sapore dei cibi. Oggi è questa l’essenza della cucina, che punta sempre di più a suscitare immediatamente ricordi lontani ma anche a restituire agli ingredienti il ruolo che meritano. Agli chef spetta il compito di tracciare e suggerire percorsi, ma anche di stare a osservare le direzioni prese da ogni singolo piatto, lasciato nelle mani degli ospiti. Il risultato è un dialogo continuo tra cucina e sala, fra idea originaria e infinite declinazioni successive.
Il risultato non è un impoverimento dell’estro creativo del demiurgo ai fornelli, bensì un arricchimento reciproco, che nobilita il lavoro di chi sta dietro le quinte e chi, nei panni di ospite, accondiscende a sperimentare, giocare, scavare nei ricordi e aprirsi alla novità… per tornare a casa non solo sazio ma anche soddisfatto… o persino felice.