Stavamo tutte dalla parte di Stockard Channing. Lo so che quando muore qualcuno si porta la diplomazia, ma ci sono cose su cui mentire non ha senso, e una di queste è: se siete state bambine (ancora di più: se siete state adolescenti) negli anni in cui usciva Grease, non tifavate per Olivia Newton-John, convinta a ragione che prima o poi l’amore arriva.
Sandy, già dai titoli di testa, era quella che qualche anno dopo avremmo imparato a chiamare «quella gran culo di Cenerentola». Era la brava ragazza. Era quella coi golfini pastello. E nessuna che stia diventando donna, in senso debeauvoiriano, vuol essere la brava ragazza prevedibile e stucchevole, per quanto belloccia. Neanche quelle che lo sono; specialmente quelle che lo sono.
Rizzo, invece. Rizzo che aveva una pessima reputazione, che forse restava incinta per sbaglio (che frisson: all’epoca nessuno ne approfittava per farci la morale circa le legislazioni abortive), Rizzo che la brava ragazza la prendeva così efficacemente per il culo: Look at me, I’m Sandra Dee.
Non sapevamo ancora che egemonia fosse quella della biondina la cui antagonista ha il proprio momento di gloria facendole la parodia. E non sapevamo – almeno non lo sapevo io, che quando uscì avevo sei anni scarsi e notavo solo i colori pastello delle macchine e dei golfini, che poi erano gli stessi di Happy Days; e, poiché non c’era l’internet a spiegarci che sia Happy Days sia Grease erano ambientati vent’anni prima, mi convinsi come tutte che l’America fosse una terra pastellata – che Grease era la storia di tutti i flirt del mondo.
In cui lui racconta agli amici esagerando d’averti ribaltata, perché vuole la loro approvazione; e lei al primo bacio già prova il nome col cognome di lui o quasi, perché quella è la sua parte in commedia (oggi si direbbe: condizionamento patriarcale; che fortuna crescere in anni meno seriosi).
Non sapevamo che, come tutte le eroine ultra-americane da Rossella O’Hara in giù, Sandy non era mica americana. Era un’inglese cresciuta in Australia che a quel punto aveva già una carriera di cantante, aveva vinto tre Grammy (il quarto sarebbe arrivato negli anni Ottanta con Physical, che se non l’avete ballata con gli scaldamuscoli non so cos’abbiate attraversato quel decennio a fare).
Ma sarebbe andata, senza la parte psichiatrica, come con Vivien Leigh: che un ruolo si mangiava tutti gli altri. (Raccontano le biografie della Leigh che in una clinica psichiatrica un’infermiera che cercava di calmarla le dicesse «io la conosco, lei è Rossella O’Hara», e quella strillasse «io non sono Rossella O’Hara, io sono Blanche duBois»).
Qualunque cosa facesse, negli ultimi quarantaquattro anni Olivia Newton-Jonn è stata Sandy. Era sempre la vergine bionda col golfino sulle spalle, non importava quante volte facesse notare che nessuna delle dive virginali del cinema americano aveva davvero un imene intatto, «Doris Day ha avuto quattro mariti». Era sempre quella alla cui svolta con giubbotto di pelle nel finale non credeva nessuno.
In questi quarantaquattro anni, Sandy – diversamente da Danny Zuko – non ha avuto un Tarantino che ne sfruttasse l’iconicità rivoltandogliela contro. La scena di Pulp Fiction in cui balla sfasciato facendo il verso a sé stesso ce l’ha avuta John Travolta, perché sfasciarsi è privilegio dei maschi e Cenerentola deve avere lo stesso punto vita di quand’era ragazzina: lo pretendiamo perché è il nostro specchio, e non vogliamo vedere le ragnatele sui nostri poster di formazione.
Trenta di questi anni, Olivia Newton-John li ha passati con le recidive d’un cancro al seno che le era venuto per la prima volta nel 1992, e sembrava superato, guarito, schivato. È la cosa che più spezza il cuore del sapere che Sandy è morta a 73 anni, un’età che oggi è praticamente l’inizio dell’età adulta.
Piangiamo, come sempre, per noi stesse, e quindi per tutte le amiche che hanno annunciato trionfali «ho battuto il cancro», evidentemente prive di scaramanzia e di contezza dei dati statistici. Piangiamo le certezze che non possiamo avere: che le biondine che redimono i playboy da liceo abbiano vite lunghissime e moderatamente noiose, che il cancro al seno sia ormai una robetta che la prevenzione rende risibile, che Rizzo non possa restare senza una bionda sulla quale infierire quando ha bisogno di distrarsi dal timore d’avere una pagnotta nel forno.
Piangiamo la ragazza nella nuova scuola le cui vecchie allieve le fanno sudare l’integrazione in anni in cui nessuno usava la parola «inclusivo», piangiamo il tempo andato che non ritornerà, l’età dell’innocenza in colori pastello, i musical di cui imparavamo tutte le canzoni a memoria subito per quant’erano moschicide, le canzoni in cui gli amici di lui chiedevano «Dicci un po’: ha provato a opporre resistenza?» senza che nessuno ci dicesse che se guardavamo film che esaltavano la cultura dello stupro eravamo brutte persone.
Piangiamo l’intrattenimento a forma di Big Babol, che sembrava Gioventù Bruciata (che è degli anni in cui era ambientato Grease) ma senza il lato oscuro. Piangiamo la scoperta che poi, fuori dal cinema, prima o poi il lato oscuro arriva.