Scia di sangueLe conseguenze dell’omicidio di Dugina sugli equilibri interni in Russia

La guerra ha finora cristallizzato il conflitto perenne fra le varie cordate dentro la corte del Cremlino: da un lato la fazione nazionalista a favore di un’escalation, dall’altro quella più cauta rimasta scottata dai disastri iniziali. Lo choc di un omicidio nel cuore del potere potrebbe risvegliare un pericoloso attivismo politico

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Dopo sei mesi, la guerra è arrivata anche a Mosca. Oppure no? Come spesso accade in Russia, anche gli eventi più attesi sfuggono a una facile interpretazione. L’autobomba che ha ucciso Darya Dugina, figlia dell’ideologo eurasiatico Aleksandr Dugin, ha squarciato il velo di apparente tranquillità che permeava la capitale della Federazione Russa. Era una calma di facciata, che presto o tardi sarebbe comunque crollata sotto la pressione della campagna di reclutamento sempre più aggressiva condotta dalle autorità per colmare i ranghi sfoltiti dalle perdite in Ucraina.  

L’attentato ha anche svelato le contraddizioni nella retorica che il Cremlino aveva furbescamente adottato per giustificare la propria campagna in Ucraina. Da un lato, l’omicidio di Dugina calza a pennello all’immagine di Kyiv come sponsor di movimenti neonazisti e terroristici, alleati con attori eversivi presenti in Russia (leggersi: le forze democratiche). A confermare questa linea ci ha pensato anche Ilya Ponomarev, una figura ambigua nella galassia dell’opposizione russa. Ex membro del Partito Comunista, per anni attore nella pantomima fra il partito di Putin Russia Unita e la finta opposizione di sistema, è un personaggio ambiguo e fortemente divisivo fra i democratici russi. 

Da anni residente a Kyiv, ha immediatamente reclamato una complicità con gli autori materiali dell’attentato, cercando di vendersi come un interlocutore con contatti sul territorio federale. Tralasciando ipotesi inverificabili su un suo potenziale doppiogiochismo, è altamente improbabile che sia effettivamente membro di una falange di partigiani capace di organizzare un tale attacco, come affermato da Ponomarev stesso. 

Il narcisismo di Ponomarev si sposa però perfettamente coi risultati delle indagini preliminari svolte dal FSB, che ha accusato l’Estonia di ospitare una delle persone sospettate di aver partecipato all’attacco. D’altro canto, la linea del terrorismo pro-ucraino dell’opposizione è anche una clamorosa ammissione di debolezza da parte dei servizi di sicurezza, l’ennesimo fallimento che si aggiunge all’incapacità di arginare le operazioni di sabotaggio svolte dai paramilitari ucraini a danno dei depositi di munizioni a Belgorod e in Crimea. 

L’immagine di un paese sotto assedio è stata a lungo propagata dalle autorità russe per giustificare la politica aggressiva di Mosca. Ciò che i curatori del Cremlino hanno però evitato negli ultimi mesi è stato cercare di rendere “l’operazione speciale” qualcosa di più concreto rispetto a una semplice guerra televisiva. 

Per un sistema di governo che predilige una cittadinanza desensibilizzata e spenta, lo choc di una guerra nel cuore del Paese potrebbe risvegliare un pericoloso attivismo politico. Come ha detto Carolina De Stefano a Formiche, un’autobomba nel cuore di Mosca risveglia gli spettri di quegli anni ’90 che Putin aveva saputo domare. 

Non a caso, la Russia ha finora cercato di evitare la proclamazione dello stato di guerra e una mobilitazione generale: oltre ai problemi di rifornimento che provocherebbe armare centinaia di migliaia di reclute, Mosca non ha alcun interesse a cedere la narrativa a quei gruppi politici che già da settimane reclamano una guerra totale.

Paradossalmente, è infatti l’opposizione leale a destra che è stata finora la più polemica rispetto alla guerra: un blogger ultranazionalista come Igor Girkin, l’ex agente del FSB e “ministro” della Repubblica di Donetsk, è fra i pochi può permettersi feroci critiche a una gestione indecisa e pasticciata del conflitto.

Questo ondeggiare fra una retorica da Grande Guerra Patriottica e una copertura mediatica che in Europa occidentale assimileremmo a quella della guerra in Iraq, ha profonde radici politiche. Come verrà usato l’omicidio di Dugina dipenderà da chi riuscirà ad affermarsi nella lotta per dare nuovamente senso alla guerra. 

La posta in gioco è alta, e la guerra ha cristallizzato il conflitto perenne fra le varie cordate dentro la corte del Cremlino. È uno scontro che vede da un lato la fazione pro-guerra nazionalista a favore di un’escalation, e dall’altro quella più cauta rimasta scottata dai disastri iniziali. Ci sono poi fratture anche all’interno dei vari campi: l’ex capo staff di Vyachislav Volodin, che da presidente della Duma sta provando a presentarsi come maggiore rappresentante delle repubbliche separatiste e alfiere dell’annessione, è in un conflitto aperto con Sergey Kiryienko, attuale vicecapo dello staff di Putin e colui che detiene nominalmente il compito di controllare gli alleati nel Donbass. 

Ci sono poi gli oligarchi, poco propensi a vedere la guerra continuare, e i tecnocrati dell’esercito e dei ministeri, spaventati dal dover dimostrare la propria capacità gestionale in una situazione così pericolosa. Su tutto ciò incombe lo spettro di Nikolai Patrushev, il falco segretario del Consiglio di Stato e forse il consigliere più vicino a Putin in questo momento. 

Non è detto che l’omicidio di Dugina sfoci in una escalation, ma sicuramente rappresenta un punto di svolta nella dialettica fra fazioni.

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