Su le dentate scintillanti vetteUn pezzo di Piemonte da mettere in valigia

Dalle Alpi alle Langhe, da Torino alla provincia, abbiamo fatto incetta di specialità iperlocali: un dolce bagaglio di storia e di cultura enogastronomica da conservare a vacanza finita

Foto Unsplash

Toma Maccagno
Quintino Sella ne era ghiotto e, si dice, quando era a Roma non perdeva occasione per offrirla ai suoi ospiti a tavola. Se volete fare lo stesso, il paradiso torinese dei formaggi dove trovare il Macagn e molte altre golosità, è Borgiattino. Presidio Slow Food dal 2004, deve il nome all’Alpe Maccagno, a quasi 2200 metri di quota: il profumo delle erbe di montagna finisce nella sua pasta semimorbida e grassa, da sciogliere dentro una buona polenta “concia”. Una curiosità: la lavorazione avviene con il latte ancora tiepido di mungitura e se c’è la dicitura “di alpeggio” significa che è prodotta in un comune al di sopra dei 900 metri di quota.

La biova
Non c’è formaggio senza pane. Ogni città ha il suo – in Piemonte le specialità regionali sono sedici – a Torino c’è la biova anche se è sempre più difficile rintracciare un forno che la proponga. Per andare sul sicuro, basta fare un salto in una delle bakery più fornite della città, quella di Perino Vesco. La distinguete al primo sguardo: forma oblunga, crosta ruvida, interno rigorosamente cavo: qualsiasi sia la sua dimensione – mignon, la biovetta, o maxi, il biovone – il pane deve “suonare” vuoto. E c’è anche chi ha pensato di non sprecarne neanche una briciola, trasformandola in birra.

La Cugnà
Origini poverissime – nasce dall’esigenza di non sprecare il residuo della vendemmia e la frutta del raccolto autunnale in eccesso – per un’autentica delizia del palato: mosto d’uva, chiodi di garofano, mele, fichi, arance, nocciole e altra frutta secca. Il risultato è una via di mezzo tra la mostarda e la marmellata che accompagna magistralmente sia i formaggi sia il bollito ma non disdegna di essere gustata da sola su una fetta di pane, meglio se di campagna. Per acquisarla direttamente dove viene prodotta si può fare un salto all’azienda agricola Ghigo Miranda o alla Cascina Fontanette. A settembre Serralunga d’Alba le dedica addirittura una sagra. Avvertenza: provoca dipendenza. Adesso lo sapete.

Riso di Baraggia
Il momento più bello per attraversare in treno il territorio tra Novarese e Vercellese è in tarda primavera al tramonto, quando le acque si tingono di un arancione intenso e sembra di viaggiare dentro una laguna sterminata. Proprio dentro quelle acque cresce buona parte del riso che arriva sulle nostre tavole, tra cui la Dop Baraggia. La coltiva, tra gli altri, la Cascina Musso, ai piedi delle Prealpi biellesi, un’azienda agricola dalla storia ultracentenaria, caratterizzata da una conduzione ancora artigianale, dalla semina al confezionamento. Mette in valigia un chilo del loro Carnaroli e il primo risotto della stagione si farà ricordare.

La Focaccia di Susa
Nelle vetrine di tutte le pasticcerie e panetterie di Susa c’è una focaccia bassa, avvolta nel celophan trasparente, sulla cui superficie bucherellata c’è uno strato di zucchero. La sua storia è antichissima: pare che già Cesare Augusto l’avesse assaggiata tra il 9 e l’8 a.C. al termine del pranzo che suggellava l’accordo militare tra la popolazione locale dell’antica Segusium, l’attuale Susa, e i Romani. Dalla bassa valle ai paesi e alle frazioni del comprensorio della Via Lattea si può trovare un po’ ovunque ma quella del panificio Favro a Susa è preparata con la ricetta di famiglia che risale al 1870.

I Nocciolini di Chivasso
Albume d’uovo, nocciole del Piemonte e zucchero, fasciati nel loro inconfondibile tubo in carta rosa li trovate ovunque, dalle migliori pasticcerie di Torino all’aeroporto di Caselle, però per qualche strana ragione i nocciolini di Chivasso comprati a Chivasso hanno un sapore differente dagli altri. Semplice suggestione? Difficile a dirsi, non resta che mettere il palato alla prova, magari al Caffè Pasticceria Bonfante che quest’anno celebra il centenario, in un trionfo di marmi, specchi, banconi e boiserie in noce piemontese. Tutto sembra rimasto fermo a un secolo fa, però oggi si paga in euro.

La Torta 900
Quante torte brevettate conoscete? A Ivrea c’è un dolce che rappresenta un’intera città e che può essere acquistato soltanto alla Pasticceria Balla. Non sarete i soli perché ci si mette in fila per assaggiare questo soffice pan di Spagna al cacao, farcito da una delicata crema al cioccolato lavorata al momento e spolverizzato con zucchero a velo. La ricetta, ideata da Ottavio Bertinotti a fine Ottocento, è tutta qui. Imitata in tutto il mondo, dal 1964 la Torta 900 è protetta da brevetto (deposito del marchio n. 176.222). Se volete assaggiarla non vi resta altra scelta che venire qui.

Gli Amaretti di Mombaruzzo
Mombaruzzo è un microscopico paese adagiato su un colle tra astigiano e alessandrino conosciuto dai golosi per i suoi amaretti, nati – si dice – nel XVIII secolo grazie alla storia d’amore tra un economo di casa Savoia e una pasticcera siciliana a servizio a corte. La futura sposa portò in dote a Francesco Moriondo, che nel frattempo aveva lasciato Casa Savoia, la ricetta di un dolce a base di mandorle che in breve tempo venne perfezionato con l’aggiunta di armelline che donavano una piacevole nota amarognola al prodotto. Il successo fu immediato e altri pasticceri si cimentarono nella preparazione facendo diventare l’amaretto una specialità locale.

Verduno Pelaverga
Storia antica che affonda le radici, è il caso di dirlo, nel 1400 con l’immancabile leggenda al seguito che vorrebbe il Beato Valfrè portare dal Saluzzese un mazzetto di barbatelle nel 1700, il Pelaverga Piccolo è coltivato soltanto in tre comuni cuneesi: Verduno, La Morra e Roddi d’Alba. A lungo trascurato, complice lo spopolamento delle campagne e la fillossera, soltanto a partire dagli anni Settanta è stato rivalutato dai viticultori e, diventato Doc nel 1995, oggi conta una produzione di circa 140 mila bottiglie realizzata grazie al lavoro di undici cantine, riunite qui.

L’amaro del Santo
Come in altre parti d’Italia, anche in Piemonte esiste una significativa produzione di amari: dal Dom Bairo, protagonista di un indimenticabile Carosello, al Diesus, dalla bottiglia a forma di frate e tanti altri. Ma l’amaro torinese per eccellenza è il San Simone. La sua ricetta pare sia stata messa a punto da una confraternita di monaci realmente esistita a Torino nel 1500 in contrada Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi), molto attiva nello studio delle caratteristiche medicamentose delle piante, dei loro frutti e delle loro radici. E fino agli anni Quaranta, in effetti, ebbe un impiego prevalentemente farmaceutico per curare malanni di stagione.

Nei vent’anni successivi la ricetta subì piccole variazioni diventando più gradevole, per rispondere ai gusti della crescente clientela. Pressoché introvabile fuori dai confini regionali, la sede storica della distilleria in via Caltanissetta è mèta di autentici pellegrinaggi purtroppo privi di successo perché l’azienda non vende al dettaglio. Poco male, per rimediare basta andare in due delle bottiglierie più fornite della città: Damarco, in piazza della Repubblica, o Parola, in corso Vittorio Emanuele.

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