Nel viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan c’è un dettaglio che non ha ricevuto la dovuta rilevanza mediatica: si tratta dell’incontro con Mark Lui, presidente di Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation, la più grande azienda produttrice di circuiti integrati al mondo, da cui gli Stati Uniti dipendono fortemente). Il viaggio di Pelosi ha coinciso con gli sforzi degli Stati Uniti per convincere Tsmc a stabilire una base negli Usa e a smettere di produrre chip avanzati per le aziende cinesi.
Stando al Washington Post, la speaker della Camera e Mark Lui erano d’accordo di parlare a proposito dell’attuazione della Chips and Science Act, la legge federale recentemente approvata dal presidente Joe Biden per lo stanziamento di 52 miliardi di dollari in sovvenzioni per la costruzione di fabbriche di chip su territorio statunitense. Tsmc sta già costruendo un impianto in Arizona (12 miliardi di costo) e starebbe valutando la possibilità di espandere il progetto in corso su suolo americano.
Come noto, da quasi due anni la domanda globale di componenti semiconduttori è aumentata a tal punto da verificare una situazione di scarsa disponibilità. Ciò ha spinto diversi paesi a un’alternativa: la costruzione di nuovi siti produttivi.
La maggior parte degli impianti di Tsmc si trova a Taiwan, nazione che oggi produce il 20% dei semiconduttori mondiali e oltre il 90% dei chip più tecnologici (secondo un rapporto commissionato dalla Semiconductor Industry Association, che si definisce la «voce dell’industria dei semiconduttori»). Gli Usa utilizzano questi chip all’interno delle attrezzature militari (tra cui i jet da combattimento F-35 e i missili Javelin) e anche le principali aziende di elettronica di consumo – come Apple – si affidano a una serie di dispositivi realizzati dal colosso di Taiwan.
Negli ultimi mesi il governo statunitense ha preso coscienza di questa dipendenza e subito, vista la retorica bellicosa della Cina nei confronti di Taiwan, è scattato l’allarme. Così, funzionari e legislatori americani hanno iniziato a spingere per la realizzazione di impianti di produzione negli States. Come già detto, la costruzione dello stabilimento in Arizona è in corso e dovrebbe concludersi entro la fine del prossimo anno, su un terreno a nord di Phoenix in grado di ospitare anche eventuali fabbriche aggiuntive.
Non solo: negli ultimi tempi gli Stati Uniti si sono mobilitati per limitare sempre di più la capacità della Cina di accedere a tecnologie avanzate per la realizzazione di circuiti integrati. In un’ampia intervista rilasciata lo scorso 13 luglio all’Aja a un gruppo ristretto di giornalisti, il ministro degli Esteri olandese Wopke Hoekstra aveva affermato che i Paesi Bassi e gli Usa stavano valutando di bloccare l’esportazione verso la Cina dei prodotti dell’azienda ASML Holding NV (con sede a Veldhoven), maggiore produttore mondiale delle macchine litografiche utilizzate per la realizzazione di microchip. «Quello che posso dirvi è che è logico che ci si metta sempre in contatto con gli amici quando certi beni hanno implicazioni strategiche più ampie e ramificazioni in tutto il mondo», aveva dichiarato il ministro.
In questa situazione già di per sé tesa si è aggiunto un altro episodio significativo sul fronte cinese. Il mese scorso l’industria tecnologica del Dragone è piombata nel caos: il 30 luglio, la massima istituzione anticorruzione cinese ha annunciato che Ding Wenwu, l’amministratore delegato del China Integrated Circuit Industry Investment Fund – soprannominato il “grande fondo” – è stato arrestato per «sospette gravi violazioni della legge». Wenwu non è l’unica persona nei guai; circa una settimana prima anche Lu Jun, ex dirigente dell’istituto di gestione del fondo, è stato arrestato insieme ad altri due dirigenti.
Istituito nel 2014, il “grande fondo” doveva utilizzare i finanziamenti governativi comunisti per dare vita a una catena di fornitura di chip made in China, riducendo così la dipendenza dai paesi alleati degli Stati Uniti (Tsmc di Taiwan, Asml dei Paesi Bassi e Samsung della Corea del Sud). Il progetto era probabilmente in anticipo sui tempi: l’entourage di Xi Jinping aveva deciso di sperimentare e investire in questa direzione ma la situazione è diventata urgente solo nel 2019, quando gli Stati Uniti hanno impedito alla compagnia Huawei di accedere ai circuiti integrati prodotti con tecnologie statunitensi.
Otto anni dopo, con un totale di 30 miliardi di dollari versati nel settore – e altri 20 miliardi in arrivo – il piano ha portato a un complicato mix di successi e fallimenti. Oggi, alla luce degli ultimi scandali, la situazione generale potrebbe spingere la Cina a un diverso approccio sul fronte dell’industria dei semiconduttori. Che, tradotto, potrebbe anche significare un’intensificazione dell’escalation legata al controllo politico di Taiwan.
Viceversa, una versione più ottimistica è che l’episodio possa persino rivelarsi positivo per l’industria cinese dei semiconduttori, evidenziando i limiti dei finanziamenti a sfondo politico e spingendo il partito comunista a una gestione del fondo su una base più “di mercato”. Nella speranza che ciò possa portare a un miglioramento e mitigare le preoccupazioni legate all’autosufficienza da chip.