Il coraggioso viaggio della speaker della Camera americana Nancy Pelosi a Taiwan ha fatto infuriare la Cina. È la prima visita a Taipei di un alto rappresentante degli Stati Uniti dal 1997 e l’immediata reazione cinese è stata un’accusa di violazione della sua sovranità. Pechino, infatti, rivendica sovranità sull’isola secondo il principio dell’Unica Cina ed è ostile a qualsiasi gesto diplomatico che possa dare a Taipei dignità di governo autonomo.
Ma non si è limitata alle parole. La ritorsione di Pechino colpirà Taiwan più che gli Stati Uniti: indipendentemente da quali sviluppi ci saranno nelle prossime ore e nei prossimi giorni, la piccola isola che sta tra il mar Cinese Orientale e il mar Cinese Meridionale sarà quella che uscirà peggio da questa storia.
Il governo cinese ha già ordinato alle sue compagnie aeree di evitare lo spazio aereo vicino a Taiwan, provocando l’allarme dei funzionari di Taipei e anche a Tokyo. Ma non solo. La Cina ha già interrotto l’export di sabbia naturale, un colpo durissimo inflitto alla produzione di semiconduttori che regge buona parte dell’economia dell’isola, conosciuta come la fabbrica mondiale dei chip.
Inoltre l’amministrazione generale delle dogane cinese ha annunciato la sospensione delle importazioni di agrumi e di alcuni prodotti ittici da Taiwan a partire dal 3 agosto: la motivazione apparente è che alcuni pesci importati da Taiwan sarebbero risultati positivi al Covid-19. Quindi per «prevenire rischi» è stato lanciato lo stop all’export di quei prodotti.
Pechino ha anche annunciato che si terranno esercitazioni militari al largo di Taiwan dal 4 al 7 agosto, e includeranno lanci di colpi di artiglieria a lungo raggio e di missili nel mare a Est di Taiwan. «Le esercitazioni militari cinesi dovrebbero circondare l’isola nei prossimi giorni», scrive Axios.
Si tratta di reazioni già viste in occasione delle precedenti visite di funzionari stranieri nell’isola. Solo a un livello leggermente più alto. Solo che stavolta c’è di più. Adesso la Cina rischia di far fondo a tutto il suo arsenale di ingerenze e intromissioni nella vita politica e sociale dell’isola. Uno degli aspetti da tenere d’occhio è la disinformazione con cui Pechino potrebbe colpire Taipei. «Le aggressioni online hanno già preso di mira i siti web taiwanesi. Le mosse sono state i primi colpi di quella che sarà una campagna intensificata di guerra dell’informazione», si legge in un’analisi di Foreign Policy.
Lo scorso 16 aprile, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha definito l’assalto informativo contro Taiwan come una «tattica di guerra cognitiva», in riferimento a una minaccia infodemica che aleggia da molto tempo sui taiwanesi.
Pechino ha cercato a lungo di sovvertire la democrazia taiwanese, di spegnerne l’afflato indipendentista, di persuadere i suoi abitanti a schierarsi volontariamente – o quasi – a favore dell’unificazione con la Cina continentale. Ma anche, più semplicemente, di creare malcontento e divisioni a Taiwan per renderla un bersaglio più facile dal punto di vista economico, politico e anche militare.
A marzo un documento ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione cinese (Pla) ha tracciato le linee guida per la guerra dell’informazione condotta da Pechino. La cosa più interessante è che, in quelle pagine, assume un ruolo centrale, almeno pari a quello della forza militare convenzionale: l’idea dei vertici del Partito è che la guerra si stia evolvendo e per questo diventa sempre più importante influenzare l’informazione, forse anche più dei sistemi bellici.
Ma questo tipo di guerra non si conduce solo governando i flussi di notizie e informazioni. «L’unica fonte di linea Internet di Taipei è il cavo sottomarino che la collega alla terraferma e la Cina da tempo minaccia di tagliare quell’accesso», si legge su Foreign Policy: sarebbe uno scenario quasi fantascientifico, «con la maggior parte dei dispositivi di comunicazione di Taiwan che si spegnerebbe e con i sistemi di difesa che diventerebbero inutilizzabili».
Tutte queste forme di aggressione o di minaccia nei confronti di Taiwan si inseriscono in una politica estera cinese sempre più influenzata dagli sviluppi del dossier ucraino.
Le conseguenze dell’invasione russa non colpiscono necessariamente la Cina in modo diretto. Ma i vertici del Partito comunista vedono nel conflitto un’esasperazione della separazione tra le democrazie occidentali e altre potenze non democratiche, come appunto Cina e Russia.
«Pechino ha capito che l’ambiente esterno è diventato più pericoloso», scrivono Bonny Lin e Jude Blanchette – rispettivamente direttrice del China Power Project e analista del Center for Strategic and International Studies – su Foreign Affairs. «La Cina teme che gli Stati Uniti possano sfruttare questa crescente frattura per costruire coalizioni economiche, tecnologiche o di sicurezza più solide, e ritiene che Washington e Taipei stiano intenzionalmente fomentando la tensione nella regione collegando direttamente l’assalto all’Ucraina con la sicurezza di Taiwan: questo potrebbe complicare il piano che vorrebbe riportare pienamente l’isola sotto il suo controllo».
La risposta europea e statunitense all’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Pechino che l’Occidente non sappia o non voglia considerare legittime le preoccupazioni (o pretese) della Russia in materia di sicurezza: i vertici cinesi temono, di conseguenza, che anche le loro non saranno trattate diversamente.
Taiwan rappresenta in un certo senso la massima espressione di questo timore. Se già prima la questione era delicata, il viaggio diplomatico di Nancy Pelosi ha convinto molti analisti di politica estera cinese che la diplomazia non funzionerà e potrebbe essere necessario ricorrere a soluzioni militari.
«Sarebbe un errore ignorare gli avvertimenti della Cina e le sue minacce di azione militare – si legge ancora su Foreign Affairs – solo perché gli avvertimenti precedenti non si sono concretizzati. Sebbene la prospettiva di un’invasione di Taiwan rimanga ancora remota, Pechino dispone di diversi strumenti da usare prima di passare a un conflitto vero e proprio, incluso l’invio di jet per sorvolare il territorio taiwanese. E se Pechino rispondesse in maniera sempre più drastica potrebbe facilmente provocare una crisi in piena regola».