Toni MeneguzzoL’alchimista delle Polaroid che tratta la fotografia come una composizione pittorica

Il fotografo classe 1949 non si accontenta mai del primo risultato: sovrapponendo diversi elementi e sperimentando, vuole rendere le sue istantanee uniche, evanescenti, quasi esoteriche. Un’arte ben raccontata nella mostra “Diptych”, alla 29 Arts in Progress Gallery di Milano dal 20 settembre al 19 novembre

Toni Meneguzzo - Maio, Causa Effetto series, 2017-2018 (Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery)

Una delle tante facce del ritorno del vintage è la passione per la fotografia istantanea, comunemente definita Polaroid (che, in realtà, è il nome dell’azienda fondata nel 1937 da Edwin H. Land). Oggi, con poco più di 100 euro è possibile acquistare online una macchina fotografica – talvolta di dubbia qualità – in grado di dare concretezza immediata a questo formato così versatile e affascinante, in salsa rétro, apprezzato anche – e soprattutto – da un pubblico giovane, estraneo all’analogico e desideroso di immediatezza. Già, perché l’immediatezza è uno dei pochi punti di contatto tra la fotografia digitale e l’istantanea. 

Come tutte le mode, anche quella della Polaroid sta a tratti oscurando quegli aspetti più artigianali, romantici, sperimentali a cui è importante restare aggrappati. Insomma, tutte le caratteristiche “ancestrali” di un formato che – forse come nessun altro – concede il giusto margine per sbizzarrirsi e ottenere risultati inediti, sempre diversi tra loro. Tra i maestri di quest’arte c’è il fotografo classe 1949 Toni Meneguzzo, i cui lavori saranno esposti alla 29 Arts in Progress Gallery di Milano (via San Vittore 13) dal 20 settembre al 19 novembre. Attraverso sovrapposizioni di diversi elementi, fili, pigmenti, specchi, acetati e transfert su carta ad hoc, Meneguzzo è diventato una sorta di alchimista delle Polaroid. Sempre alla ricerca di un risultato dal potere evocativo, capace di uscire dagli schemi e di trasmettere emozioni autentiche. 

Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

La mostra milanese si chiama “Diptych” ed è la personale di un artista – noto a livello internazionale anche (e soprattutto) per le Polaroid grande formato 20×25 – che nella sua carriera quarantennale ha trasformato la fotografia in uno strumento di analisi antropologica. Ha lavorato molto nella moda – collaborando con media del calibro di Vogue, Marie Claire, Harper’s Bazaar, New York Times -, ha viaggiato per il mondo e ultimamente si è dedicato maggiormente all’architettura e al design. 

Giovanni Pelloso, curatore di “Diptych”, e i galleristi hanno selezionato più di 60 opere (alcune delle quali inedite) in grado di dare giustizia in modo esaustivo all’approccio di Toni Meneguzzo, a cui abbiamo fatto qualche domanda in vista dell’inaugurazione. 

Qual è il messaggio che desidera veicolare attraverso questa mostra?
«Voglio ricreare una consapevolezza che col mondo digitale si è vaporizzata. Il mondo digitale richiede l’instant like, che non mi appartiene. Io desidero un risveglio di consapevolezza attraverso le persone che guardano il mio lavoro. Anche per rispetto di ciò che faccio, io non utilizzo Photoshop: voglio onorare il mio percorso in tutto e per tutto, e spero che questo desiderio di coerenza arrivi al visitatore. Appartengo a un mondo di leggerezza, di libertà che mi piacerebbe comunicare».

Toni Meneguzzo – Gost, Causa Effetto series, 2017 – 2018 (Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery)

Perché è così affascinato dalle Polaroid?
«Tutte le volte fai uno scatto singolo: c’è una grande progettazione dietro. Non arrivi mai in studio a improvvisare. Ti serve una posa quasi statuaria: il soggetto non si può muovere e non può inventarsi delle posizioni, altrimenti non finirei mai e dovrei affidarmi alla rapidità di scatto di una classica macchina fotografica. La Polaroid ha una sua, come dire, qualità pittorica. Avendo subito in mano la fotografia ti rendi conto, per esempio, che potresti sovrapporre altri elementi pittorici. Il contributo diventa alchemico: la tua camera oscura consiste anche nell’aggiungere allo stesso scatto un altro scatto ancora. Così si crea un sandwich. Nelle mie foto ci sono elementi stranianti, che non corrispondono allo scatto reale: questo per via della sovrapposizione di diversi elementi». 

Come funzionano, nello specifico, i suoi lavori di sperimentazione con le Polaroid?
«Tanti anni fa, la Polaroid creava pochissimo materiale che dopo un po’ si esauriva: diventava sempre la stessa cosa. Ti faccio un esempio. Io ho sovrapposto alla prima Polaroid scattata un acetato, che è trasparente. Poi ho inquadrato un fondale con delle caratteristiche materiche particolari. Quel fondale l’ho realizzato in acetato per poi sovrapporlo alla fotografia di una figura femminile, quasi in controluce. Quasi tutte le mie foto sono composte da elementi diversi tra loro. Io ho comprato dei filtri che durante le riprese mi regalano una grana che non esiste. E in questo modo do più dinamica al soggetto. Spesso trasferivo la stessa Polaroid su una superficie tipo carta fabriano, poi ri-fotografavo il soggetto e con l’acetato rimettevo i pezzi che avevo perso. Sono tutte delle composizioni. La Polaroid può essere manipolata sul momento, perché ti dà tutto ciò che potrebbe fornirti un laboratorio». 

Sembra che nel suo lavoro ci sia tanta scienza, tanta chimica… 
«Sì. Tieni conto che la Polaroid ha un bianco e nero abbastanza insignificante: io ho quindi pensato di mettere dentro un negativo a colori, e così è uscito il tono seppiato che è di fatto inesistente nelle Polaroid. Sono tutte scoperte che fai nel momento in cui ti avventuri e provi a sorpassare il concetto alla base della Polaroid. In alcuni casi ho addirittura tolto – grazie a una siringa – i liquidi che servono a dare la risoluzione. Ho preso la Polaroid senza seguire le istruzioni, facendo letteralmente quello che volevo: un costante lavoro di sperimentazione». 

Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Qual è stata la chiave del successo internazionale della Polaroid 20×25? 
«A lavorare in quel formato eravamo pochissimi. La chiave è stata la qualità pittorica che offre il grande formato. Lì sei con una macchina che è di inizio secolo. Lavori con dei tempi che possono essere 1/4 di secondo, 1/8 di secondo. La modella non rimane fermissima, tu scuoti la macchina e fai quella mossa impercettibile che dà una certa sfumatura alla stessa immagine. Nella vasca dove la Polaroid viene processata puoi diluire i tempi: al posto di 1 minuto e mezzo puoi tenerla 30 secondi, con risultati potenzialmente unici, più evanescenti». 

Il formato delle Polaroid è stato una sorta di precursore della fotografia digitale?
«Il grande successo del formato 20×25 si è disciolto nel tempo: quasi nessuno usa più questo materiale. In parte è colpa del digitale. All’inizio della mia carriera, quarant’anni fa, il digitale non esisteva: avevi una qualità radicalmente diversa. Una qualità, però, che ha rappresentato il primo passo verso l’immediatezza del digitale (che lo vedi subito a monitor). Sotto quell’aspetto, la Polaroid era proiettata verso il futuro, perché donava immediatezza. Non a caso, il “signor Polaroid” ha soddisfatto una richiesta di sua figlia, che insisteva per vedere le fotografie subito». 

Lei ha viaggiato tanto, soprattutto in Oriente. C’è stato un incontro particolarmente significativo che ha voglia di condividere con noi?
«Nei miei viaggi, oltre alla moda, mi sono concentrato su aspetti più antropologici. Ad esempio ho fotografato le vacche sacre con il corpo dipinto. Un giorno ero a Udaipur, in India. C’era un uomo che stava spingendo la sua bicicletta in salita, ho attaccato bottone e ho scoperto che era un professore di filosofia all’università di Udaipur. Ho cercato di raccontargli cosa stessi facendo in India, ma lui non capiva. A quel punto ho deciso di invitarlo nel mio albergo per mostrargli le mie foto. Una volta arrivati, mi ha detto: “Toni, tu non stai pensando ai soldi, ma i soldi arriveranno”. Ha fatto centro. Libero da qualsiasi vincolo del profitto, facevo cose che piacevano a me, con rischi commerciali non da poco. Ma lui ha capito il mio spirito, il mio intento».