Due vite agli antipodi legate indissolubilmente dall’amore per l’arte e dall’autenticità dei sentimenti che hanno portato uno a morire povero in canna a trentacinque anni, e l’altro, che a ottantacinque è più vigoroso che mai, ad essere odiato dal mondo dell’arte intero. I protagonisti di questa storia sono Amedeo Modigliani, pittore livornese celebre per le sue figure aggraziate dal collo lungo e per i suoi nudi, e Carlo Pepi, collezionista d’arte pantagruelico e uno dei massimi esperti esistenti riguardo l’arte di Modì. Era stato lui, nel 1984, l’unico a dire che le teste ritrovate in un fosso a Livorno fossero dei falsi (primato oggetto di eterna querelle con Vittorio Sgarbi, che sostiene di averlo preceduto). Sempre lui, nel 2017 sollevò dubbi sull’autenticità di alcune opere esposte a Genova a Palazzo Ducale, faccenda per cui ancora oggi sta andando avanti un processo.
«Ma via, non lo vedi che è un troiaio (espressione toscana che identifica qualcosa di brutto, fatto male, ndr). Ti pare che possa averlo fatto Modigliani questo?» Spiegazioni poco ortodosse che però non sconfessano l’occhio chirurgico di Pepi che, forte del suo amore incondizionato per l’arte in generale e per l’opera di Modigliani in particolare, su certe cose non si sbaglia.
«È una questione di sensibilità: la mano che è in grado di disegnare un tratto così armonioso non può essere la stessa che tira una riga così sgraziata, come codesto troiaio». A canalizzare il suo sdegno sono state appunto le opere di Genova. Che il mercato dei falsi intorno all’opera di Modì sia parecchio fiorente non stupisce: “Nudo disteso”, solo per citarne uno, è stato battuto all’asta per 170 milioni di dollari nel 2015, una delle cifre più alte mai versate per un dipinto. E se l’affaire delle teste era stata una burla organizzata da alcuni studenti d’arte, chi falsifica un Modigliani oggi ha interessi certamente meno goliardici «Il problema dei falsi nel mondo è enorme perché muove un giro d’affari di miliardi di dollari, ma gli storici dell’arte se ne sono sempre occupati malvolentieri, perché molti, e anche quotati, non distinguono un Carlo Pepi da un Michelangelo, oppure non lo vogliono distinguere per interesse».
Modì, che in pace ci riposa poco, è stato tirato in causa ancora una volta per via di una scoperta fatta dal museo Hecht dell’Università di Haifa: in vista di una mostra a Filadelfia del prossimo ottobre, uno dei dipinti del museo, “Nudo con cappello” (1908), è stato passato ai raggi X perché si pensava contenesse, nei suoi strati, degli schizzi inediti di Modigliani. E, in effetti, pare proprio sia così: sotto il colletto della donna ritratta con il cappello, che con ogni probabilità è l’amica del pittore Maud Abrantes, erano già stati notati degli occhi, ma è impossibile vedere ad occhio nudo quello che i raggi X hanno evidenziato, ossia la presenza di altri due ritratti: uno di un uomo e l’altro di una donna con i capelli raccolti in una crocchia.
«Hanno scoperto che al sole l’acqua diventa calda» commenta Pepi. «Scoperta sensazionale, mi fanno ridere: tutti i pittori hanno sempre ridipinto su tele già dipinte, magari su vecchi quadri passati nello stile, perché non piacevano più, ma anche perché c’era carenza nelle tele, non era facile reperire quelle belle, intelate e con le stecche in legno. Qualunque pittore lo ha fatto: se analizziamo 100 dipinti ai raggi X ci saranno dei dipinti preesistenti nella stragrande maggioranza dei casi, mi sembra una scoperta da idioti».
Ma lei un Modì ce l’ha? «Ho dei disegni e poi delle litografie fatte da opere autentiche in numero limitato». Nelle due ville in Toscana, Pepi conserva una quantità di opere pittoriche incredibile «Quante siano effettivamente è impossibile dirlo, per accontentare la gente di solito dico una cifra approssimativa: siamo nell’ordine delle 20.000 opere. Ci sono letteralmente cataste di dipinti e poi tutti i libretti disegnati. Gli scarabocchi poi si contano o no? Sono scarabocchi fatti da Fattori o da Lorenzo Viani su dei libretti: se avessi il coraggio di strappare la pagina e incorniciarli diventerebbero dei pezzi importanti».
Pepi ha tanti interessi («Mi è sempre piaciuta la velocità, ho smesso di andare in moto sennò mi ammazzo», ma ha consacrato la sua vita all’arte senza mai voler entrare a far parte del circuito istituzionale o accademico: «Non mi è mai interessato fare il mestierante dell’arte. Per vivere facevo il commercialista e, siccome con i numeri sono sempre stato piuttosto bravo, utilizzavo il mio lavoro per poter comprare opere, ma non mi sono mai voluto imparentare con gli storici dell’arte: per me è e deve rimanere solo una forte passione».
Pepi ha rifiutato una Laurea Honoris causa di un’Università americana di cui non ha interesse a ricordare il nome «Mah, una città in America, ora dovrei andare a ricercare le carte, ma non la voglio» e anche la carica di direttore della sezione Falsi e Contraffazioni dell’Associazione internazionale ArtWatch International Inc., offertagli dal celebre storico dell’arte James Beck della Columbia University.
«Non voglio far parte di una categoria per cui la mia stima è sotto zero. Zero è già un’entità: ecco, la mia stima per loro sta sotto. Conoscere la storia dell’arte certamente è importante, ma non ti apre la mente: la leggi una volta, la leggi la seconda, alla terza non ci arrivi, butti via il libro prima. L’arte è questione di intuito, di logica, e soprattutto di osservazione. Questi tromboni spesso non capiscono niente, ma se un professorone dice qualcosa, tutti gli vanno dietro: come quando sono stati messi al bando Giovanni Fattori e tutti i macchiaioli. Fattori è stato il primo astrattista della storia, ma siccome Roberto Longhi, che era un critico considerato geniale, disse che era da buttare via, tutti lo buttarono via. La necessità dell’arte, l’assoluto, il tendere all’infinito, sono concetti più matematici che storici: uno dovrebbe prima studiare i numeri, aprirsi la mente, e poi iniziare a ragionare d’arte. L’arte vera è imparentata con l’analisi matematica».
Pepi, nato e cresciuto a Crespina in provincia di Pisa, nella vita ha studiato economia. Il suo occhio chirurgico per le opere d’arte se l’è costruito da autodidatta, e questo al mondo degli accademici non è mai andato giù: «Io poi questi tromboni me li trovo contro nei processi per falsi, loro prendono il gettone e dicono quello che gli viene chiesto di dire, e poi rinfacciano a me di non essere credibile perché non sono laureato. Io però le cose le vedo, e se un dipinto è un falso è un falso. Loro invece funzionano come le lavatrici a gettoni: infili la moneta e lavi i panni. L’arte per me è istinto: Maradona ce l’aveva per il pallone, io ce l’ho per i quadri e, quando ce l’hai, le cose le vedi, ti saltano subito agli occhi, hai voglia di essere laureato in storia dell’arte, per me è tutto molto più concettuale. A imparare una storia a memoria sono bravi tutti. Nella cantina, da dove di solito faccio partire la visita alla villa, c’è una scala con sopra delle teste con la parte superiore aperta: un’idea per circolare deve trovare menti aperte, se incontra menti ottuse si ferma e non farà mai il giro del mondo».
Nelle due ville tra cui divide la sua vita sono letteralmente stipate opere dall’inestimabile valore, non solo economico, ma anche culturale. Può capitare di aprire una cartelletta e vederne uscire fuori un Mirò o un Keith Haring, scostare un attimo lo stipite di una porta e scoprire un Balla. I dipinti sono dappertutto, anche in bagno. Lui stesso non sa di preciso cosa è dove, ma è capace di parlare per ore e mostrare con estrema generosità tutto quello che negli anni ha accumulato a chiunque sia interessato.
Ci sono moltissimi macchiaioli, grande passione di Pepi accanto a quella per Modigliani, e poi le sale dedicate agli avanguardisti del Novecento. Artisti semi-sconosciuti accanto a pittori quotati e di indubbia fama convivono in queste residenze votate all’arte e alla condivisione della cultura in maniera pura. Niente mostre, niente istituzioni, niente fondazioni: Pepi piuttosto parla per ore ai ragazzini delle scuole medie, elementari e superiori, e a chiunque voglia visitare le sue due ville a Crespina, in provincia di Pisa, piene zeppe di dipinti.
«Qui chiunque si può fare una cultura sulla pittura del Novecento e a quei genitori che mi dicono che i figli amano disegnare e che li vogliono mandare alla scuola d’arte io li imploro di non farlo: la teoria e la meccanica impoveriscono l’arte. Quando uno inizia a diventare un mestierante dell’arte, ecco che smette di essere un’artista. Fattori, che era stato il maestro di Modigliani, gli diceva sempre di osare, di scandalizzare e di non andare dietro a nessuno. Era un genio, e i geni lì per lì non vengono mai capiti: lui sapeva che l’epoca del vero sarebbe presto stata superata, e rimproverava Modì perché sapeva disegnare troppo bene, faceva ritratti che sembravano fotografie. La bravura è roba da dementi, diceva, se voglio una fotografia faccio una fotografia, un dipinto deve interpretare. Modigliani questo lo recepì molto bene e smise di fare le cose identiche al vero, iniziando a interpretare: quello che gli interessava era il ritratto umano, ecco perché le opere di Modigliani sono riconoscibili a cento metri. Quelle originali sono quelle da cui si percepisce l’emotività e la ricerca interiore. I falsari questo non lo sanno fare, non sanno copiare l’interiorità dell’individuo: l’imponderabilità dello spirito va oltre la bravura tecnica», conclude Pepi.