Una storia europeaL’identità e la resistenza millenaria dell’Ucraina

Gli ucraini hanno affrontato momenti critici e unendo le forze hanno saputo reagire nei confronti di chiunque volesse sottometterli. Non solo in circostanze di emergenza, esiste una fila di paesi europei pronti a sostenere questo paese

Quella dell’Ucraina è una storia europea. La festa nazionale ricorre ogni 24 agosto, ma in queste ore ha una valenza ancora più forte rispetto alle trenta volte che l’hanno preceduta a partire dall’indipendenza del 1991. Il muro di Berlino era caduto due anni prima, si sgretolava il socialismo reale. Anche oggi il Paese è un simbolo della resistenza all’imperialismo e di riscatto contro l’oppressione delle dittature. Da allora, ha guardato a Occidente, la colpa che il Cremlino cerca di fargli pagare coi carri armati. Ci sono voluti più di trent’anni per percorrere i duemila chilometri che separano Kyjiv da Bruxelles. Non è solo geografia dire che il centro del nostro continente si trova lì. 

Solo secondo il delirio di Vladimir Putin non è una nazione, ma una falsificazione come quella che il nuovo zar ha rinfacciato a Lenin in un allucinato discorso alla nazione. Propaganda.

La verità storica è che in Ucraina la Russia ci è nata, nell’Anno Domini 882. Forse per questo i fallimenti di questi sei mesi di guerra gli bruciano così tanto. L’eroismo degli ucraini ha smentito le previsioni dei famigerati servizi segreti di Mosca. In questi mesi, abbiamo sentito spesso un’interpretazione dell’etimologia di Ucraina, come «terra di confine». Senza essere filologi, la frontiera in questione è quella tra la democrazia e il fascismo cleptocrate degli oligarchi.

“Rus’” è il nome del clan vichingo che regnava a Kyjiv, sul fiume Dnipro. Quello snodo era strategico per i commerci dell’epoca, tra il Baltico e il Mar Nero. Nel 998 il sovrano Volodymyr I si converte al cristianesimo ortodosso sposando la sorella dell’imperatore bizantino Basilio II. Quattro secoli più tardi sciama l’orda dei Mongoli, poi le dominazioni di Lituania e Polonia, fino alla spartizione con la Russia imperiale. Nell’Ottocento quelle distese sono terreno di coltura di un forte sentimento anti-zarista. È un avanti veloce inevitabile per avvicinarci al presente.

Nel 1917 i dieci giorni della rivoluzione bolscevica sconvolgono il mondo. L’Ucraina di quello scorcio di Novecento reclama per la prima volta la repubblica e ospita anche un esperimento anarchico: lo Stato senza lo Stato della Makhnovshchina, prima alleata dei rossi poi in rotta con loro. Sotto la bandiera nera di Nestor Makhno, da Huliaipole quell’utopia radicale si allarga al Donbas e a Kharkiv. Dopo Brest-Litovsk, la guerriglia taglieggia tedeschi e austriaci; gli imperi centrali si ritirano all’armistizio del 1918. Gli scontri tra fazioni si protraggono fino al 1921, quando il Paese viene inglobato nell’Unione Sovietica.

Mosca, però, è lontana. Il controllo del Partito comunista, con la disastrosa politica economica di collettivizzazione forzata delle terre e l’epurazione dei kulaki, si tradurrà nello svuotamento delle campagne e nell’Holodomor, una carestia che non è un flagello biblico, ma causata dagli uomini. Sette milioni di morti per fame. Anche per questo, parte della popolazione accoglie con sollievo gli invasori nazisti nel 1941. Il Terzo Reich governa a mano armata, il dissenso è represso nel sangue. Fino al 1950 c’è un conflitto strisciante tra i nazionalisti e i russi. 

Nel 1954 Nikita Krusciov regala a Kyjiv la Crimea, l’ambito sbocco sul mare dai tempi della zarina Caterina II. Poi l’opinione pubblica occidentale si scorda dell’Ucraina fino al 26 aprile 1986, il giorno in cui scoppia il quarto reattore di Černobyl’. Attorno alla centrale sigillata si è tornati a combattere nel 2022, in un tornante della storia. 

A dicembre 1991, il 92.3% degli ucraini vota per l’indipendenza al referendum. La repubblica è una delle più prospere tra quelle uscite dall’orbita sovietica: il settore agricolo è molto sviluppato, ci sono alcuni stabilimenti – come l’Azovstal’ – di punta dell’industria siderurgica e bellica. Le armi diventano un problema. Al collasso dell’Urss, in Ucraina si trovano più di 1200 delle 3mila testate atomiche dell’ex Patto di Varsavia. Nel 1994, con il memorandum di Budapest, il Paese aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare. Le bombe vengono trasferite in Russia, ma in cambio Mosca, con garanti la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, si impegna a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale. 

Aleggia ancora lo spettro di Černobyl’, con una reputazione internazionale da ricostruire. Le merci prodotte oltre la vecchia «cortina di ferro» sono poco competitive sui mercati internazionali e fino alla Costituzione del 1996 non c’è nemmeno una valuta nazionale, la grivnia. È un periodo di crisi economica e inflazione marciante, ma la nuova Ucraina sogna già un futuro più vicino all’Europa. Nel 1994, a soli tre anni dall’indipendenza, viene firmato il primo trattato di cooperazione tra Kyjiv e Bruxelles.

Il dialogo continua, costante. Nell’archivio video della Commissione europea, ci sono foto e filmati che ormai sembrano d’epoca, con le strette di mano e quella bandiera – sotto l’oro dei campi, sopra il blu del cielo – oggi così familiare accanto a quella europea. Segna una battuta d’arresto l’elezione di Viktor Janukovyč. È l’autunno caldo del 2004, le proteste contro un premier troppo vicino al Cremlino scatenano la Rivoluzione Arancione. Sventata la frode elettorale, sale al potere il riformista Viktor Juščenko. La leadership femminile di Julija Tymošenko, il volto delle manifestazioni di piazza, le vale il posto di prima ministra.

La crisi finanziaria del 2008 si fa sentire anche qui. I negoziati con l’Ue non sopravvivono al governo di Juščenko. Nel 2010 torna in sella Janukovyč, che nel novembre 2013 rifiuta di firmare l’integrazione economica con l’Ue, preferendo l’adesione all’Unione doganale Euroasiatica offerta da Putin. Il Paese insorge nuovamente e rivendica un avvenire diverso. Piazza Maidan – o, meglio, Euromaidan – non sarà più la stessa. Centinaia di migliaia di ucraini sfidano una repressione violenta, e vincono. Il presidente filorusso fugge. Come ritorsione, nel 2014 Putin annette la Crimea e fomenta il separatismo a Luhansk e Donetsk.

Falliscono le due edizioni del protocollo di Minsk, patrocinato dal cosiddetto «formato Normandia», cioè con la mediazione della Germania di Angela Merkel e della Francia di François Hollande. Grandi assenti gli Stati Uniti. Le condizioni prevedono la fine dei combattimenti, autonomia ed elezioni locali, autodeterminazione linguistica per il russo, il ritiro delle truppe straniere e delle armi pesanti, l’amnistia ai separatisti. Non saranno rispettate. Il conflitto nel Donbass, tra il 2014 e il 24 febbraio 2022, su un fronte lungo 420 chilometri farà più di 14mila vittime, tra cui oltre 3mila civili, e causerà più di un milione di sfollati interni. 

Nel 2017, con Petro Porošenko Kyjiv sottoscrive finalmente la prima intesa con Bruxelles. Due anni dopo il terremoto politico in cui trionfa Volodymir Zelensky. Attorno all’ex comico diventato leader si stringe il Paese in guerra. Lui sa inchiodare alle sue responsabilità un’Europa che inizialmente temporeggia. Prima le sanzioni, a più riprese, poi le visite dei capi di Stato e dei vertici delle istituzioni comunitarie. Dal questionario di adesione all’Ue al parere positivo passano settimane contro gli anni richiesti in passato. Serviranno riforme, certo. Per il momento, all’Ucraina servono soprattutto armi. L’apertura dei Ventisette è solo l’inizio, ma oggi significa soprattutto un segnale di speranza: che il futuro europeo sognato negli ultimi trent’anni è ancora possibile.

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