Appropriazione sovieticaPer comprendere l’arte ucraina c’è bisogno di una lente post-coloniale

Mosca riconduce tutte le opere nate nei territori dell’ex Urss al grande contenitore della cultura russa, appiattendo sfumature e differenze fra tradizioni e popolazioni dell’Europa orientale. Il programma del padiglione ucraino dalla Biennale di Venezia vuole cancellare i bias creati dall’imperialismo culturale russo

“La Crocifissione dell'Ucraina”, esposta al museo di Kiev (AP/LaPresse)

Dall’inizio degli anni ‘90 tutte le espressioni artistiche sovietiche sono state ricondotte nel grande contenitore della cultura russa, appiattendo sfumature e differenze fra tradizioni e popolazioni dell’Europa orientale. In questo modo un’opera creata nella Repubblica socialista sovietica ucraina, georgiana o estone è diventata semplicemente “russa”, con la connivenza e la pigrizia degli osservatori occidentali che hanno accettato la narrazione creata da Mosca.

Le fatiche di Dziga Vertov (polacco), David Burliuk (ucraino), Kazimir Malevich (ucraino) sono considerate “avanguardia russa”: ne è un esempio la mostra organizzata dal Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 2017.

Allora oggi per inquadrare nel modo più giusto l’arte dell’Europa orientale è necessaria una lente post-coloniale. Nasce da qui “Decolonising Art. Beyond the Obvious”, il programma interdisciplinare del Padiglione ucraino alla 59esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che coinvolge artisti, curatori, intellettuali pubblici e ricercatori: una serie di incontri, colloqui e dibattiti su una visione post-coloniale dell’Ucraina e dell’Europa orientale come risposta all’aggressione russa nei confronti di Kyjiv.

Il programma vuole creare una conversazione inclusiva, sensibile e critica sulle errate percezioni dell’Ucraina create dalla postura imperialista del Cremlino. Così l’Istituto ucraino – istituzione culturale e agenzia governativa che fa capo al ministero degli affari esteri di Kyjiv – mira a rafforzare la visibilità dell’arte ucraina, ancora troppo trascurata o sottovalutata.

Il tono del programma lo si intuisce dal titolo primo tavolo di dibattito, lanciato lo scorso aprile: “How Russian War Against Ukraine Changed the [Art] World”. Gli appuntamenti che iniziano a settembre, invece, sono organizzati in quattro moduli (tutti gli eventi si svolgeranno a Venezia in diretta streaming, in lingua inglese), il primo è “How Do We Decolonise Art?” (dal 2 al 4 settembre).

Il programma è parte del progetto espositivo del Padiglione dell’Ucraina, curato dalla Commissaria Kateryna Chuyeva, Vice Ministro del Ministero della Cultura e della Politica dell’Informazione dell’Ucraina e curato da Lizaveta German, Maria Lanko, Borys Filonenko e si terrà in collaborazione con l’Istituto ucraino, gli artisti partecipanti e i curatori di altri padiglioni nazionali.

Il lavoro portato alla Biennale dall’Istituto ucraino sarà dunque fondamentale per minare l’impalcatura imperialista russa. Dopotutto, neanche le istituzioni culturali occidentali sembrano avere gli strumenti adatti per comprendere la portata dell’appropriazione culturale e artistica di Mosca.

A inizio marzo, poco dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe del Cremlino, l’ufficio stampa del Festival di Cannes aveva diffuso una dichiarazione piuttosto ambigua: «I nostri pensieri vanno in particolare agli artisti ucraini e ai professionisti dell’industria cinematografica. Tuttavia, vorremmo salutare il coraggio di tutti coloro in Russia che hanno rischiato per protestare contro l’assalto e l’invasione dell’Ucraina. Tra loro ci sono artisti e professionisti del cinema che non hanno mai smesso di combattere contro il regime contemporaneo, che non possono essere associati a queste azioni insopportabili, e coloro che stanno bombardando l’Ucraina».

Quest’anno al Festival non c’è stata alcuna delegazione russa ufficiale, ma i film russi erano presenti: «Continueremo a ricevere e prendere in considerazione film di tutti i registi indipendentemente dalla loro nazionalità», aveva fatto sapere l’organizzazione.

Una decisione apparentemente condivisibile, a sostegno di artisti e registi russi che hanno protestato e criticato l’invasione dell’Ucraina mettendosi contro un regime intollerante che non ha paura di punire i dissidenti.

Ma è proprio qui che si può notare il cortocircuito cognitivo. La domanda che bisognerebbe porsi in questa situazione l’aveva posta la giornalista ucraina Daria Badior in un articolo di marzo su Hyper Allergic: «Molti professionisti del cinema ucraino ora sono in guerra, stanno combattendo all’interno dell’esercito o filmando la nuova vita che tutti noi ucraini abbiamo. A differenza dei colleghi russi, non sono in grado di finire i loro film che potrebbero essere proiettati a Cannes. Hanno portato i loro figli in luoghi sicuri e sono tornati in Ucraina per fare ciò che era necessario. Il Festival di Cannes non saluta quel coraggio, solo il coraggio dei russi che protestano. Come mai?».

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